Gestire un giornale? Per carità, un mestiere da uomo. Possibile che una donna a Luino ai primi del ‘900 potesse conoscere qualsiasi testo senza preclusioni, che sedesse nei consessi maschili e dicesse la sua, che leggesse saggi, classici e romanzi tenuti sottochiave da padri e fratelli zelanti e addirittura manifestasse in pubblico le proprie opinioni? Mai e poi mai. All’epoca le pubblicità reclamizzavano che “il focolare è un trono” e che da lì la donna governa il suo popolo. “Fu in questo clima che Emanuelina si prese sulle spalle la responsabilità di continuare l’opera di Francesco Branca, suo padre, che aveva fondato il settimanale nel 1879”, spiega Elena Ciuti, erede, giornalista ed editore del Corriere del Verbano, autrice del romanzo che ne racconta la storia.
Le raccomandazioni del capostipite alla figlia, al momento di cederle il timone, andavano ben oltre le necessarie conoscenze tipografiche ancora legate al piombo: “Stai a fianco del Pepp, è il migliore a comporre a mano; ‘sta spatafiata tagliala lì, suddividila in puntate; controlla bene gli originali e l’impaginato; paga subito, la gente è povera, anche i fornitori, saranno devoti; non farti ingabolare perché sei donna; bevi tanto latte dopo la tipografia; correggi le correzioni perché ti tolgono un pasticcio e te ne appioppano uno peggio; mai inventarsi frottole; attenta, quel tale è una volpe, quell’altro un ruffiano”. Pillole di saggezza di vita, prima ancora che regole aziendali.
Il romanzo di Elena Ciuti s’intitola “Corpo 8” (Editore Manni, pp. 170, € 17,50) e si basa su documenti, fotografie, lettere, appunti e ricordi di famiglia. Emilia, la moglie che collabora con Francesco, Emanuelina, Pia, Giuseppina: una dinastia di editori al femminile, di imprenditrici quasi loro malgrado, di donne sole e tenaci o anche sposate, con figli, caparbie, coraggiose, tenute per vincoli di famiglia ad addossarsi l’onere e l’onore di gestire il giornale. Donne che ispirano i titoli, i sommari e gli elzeviri ai princìpi etici irrinunciabili del progresso: non si insultano i lavoranti né si alzano le mani su di loro, chiunque ha diritto a saper leggere e scrivere, gli operai hanno diritto alla salute dentro e fuori le fabbriche, anche le donne devono poter studiare, non si assegnano lavori umilianti ecc. ecc.
Trascorrono gli anni, dal funerale del fondatore agli anni ’15 del Novecento e il racconto trasporta il lettore nell’affascinante mondo della stampa a caldo di tanto tempo fa, l’olio del torchio che si scalda all’alba, le pareti con le casse tipografiche, le righe, i punti, le lenti, i vantaggi, i pacchetti di composizione, gli schedari, la pedalina che impiega mezz’ora per l’avviamento, i solventi, le glicerine, i grembiuli neri dei tipografi, le matrici per le colonne della pagina. “Gli oggetti evocano ricordi, sono una musa”, confessa l’autrice. La monotype sbuffa e stampa nel cuore di Luino, in via Cavallotti, a due passi dal porticciolo dei battelli con vista su Cannero. Frequenti i quadretti poetici: la pioggia che si illumina dentro un lampo, gli strali del cielo che arruffano brezze italiane e ticinesi, i castagni d’India affacciati sul golfo, l’acero rosso di piazza Garibaldi e la canfora che sotto la sferza del vento creano un tappeto di fiori in via Cavallotti.
Nel romanzo irrompe la storia, gli anni difficili del Ventennio, l’arresto degli ebrei “sovversivi” a Ponte Tresa, il sequestro delle copie del giornale nel 1936, il rogo davanti al Kursaal, le disposizioni e i divieti del regime, le velate minacce degli avanguardisti, l’oro alla patria. Progressivamente cambia il passo della narrazione, avanzano vicende e persone di famiglia anche lontane su cui il Ventennio farà sentire drammaticamente il suo morso. “Avrei potuto scrivere un saggio storico, un racconto asettico con una bella bibliografia e la ricostruzione scientifica di fatti e avvenimenti – spiega Elena Ciuti – Invece ho fatto una scelta d’amore e di libertà espressiva svelando aspetti che al di fuori della famiglia nessuno conosce con un’indagine psicologica e sentimentale”.
Colpisce l’abbondanza lessicale e la scrittura raffinata, l’uso del “parlato” varesotto e lombardo denso di termini della vita quotidiana, di luoghi, profumi, sapori, oggetti, tradizioni, credenze popolari e citazioni in dialetto (mòchela, malnatt, stroliga, che stufita, pan ciocch, rüsümada). “Sono cresciuta con i racconti dei nonni e dei genitori e quando è morta mia madre ho temuto che si portasse via quei ricordi. Ho voluto recuperare memorie che rischiavano di perdersi e raccontare l’epopea del cartaceo, del lavoro manuale, dello studio dei caratteri tipografici. È il mio vissuto, è una cultura da non perdere. Soprattutto dal 2011, da quando Il Corriere del Verbano si è convertito al digitale. Oggi esce online”.
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