Nulla di nuovo sotto il sole, ma insieme anche i segnali di un malessere che in mezzo secolo cambia aspetto. Il tormentone lanciato dalla proposta – provocazione di Marco Reguzzoni – ex capogruppo dei deputati leghisti, ex presidente della Provincia di Varese, insomma non uno qualunque – ha (ri)dato fuoco alle polveri, anche per le considerazioni collaterali scaturito. Obiettivo raggiunto, viene da dire. Unire Gallarate e Busto Arsizio, sdoppiare l’attuale provincia e magari allargarne confini e prospettive, che fare di Varese?
Non si pensi tuttavia che sia una nuova prospettiva, mentre nell’aria tira vento di rivitalizzare l’istituzione Provincia stessa, messa da tempo nel freezer.
Facciamo un salto indietro di quasi mezzo secolo: era il 1976 quando l’Italia vinceva la prima Coppa Davis, tanto per dare una prospettiva temporale. A Varese in quei mesi si discuteva del futuro delle province. Da una parte prendeva corpo la Regione, istituita nel 1970. Benché ancora in fase di crescita, sotto la spinta di un dinamico presidente, Cesare Golfari, alla guida del Pirellone dal 1974 al 1979 era già considerata un ente “lontano. Si sentiva la necessità di un ente intermedio per molte esigenze locali: troppo grande la provincia, troppo piccoli i comuni. Nacque così l’idea del “comprensorio”, ritagliato attorno alle due macro-aree di Varese e Busto Arsizio. Del resto, in quegli anni, queste avevano le rispettive associazioni industriali, i sindacati maggiori avevano due distinte organizzazioni. Alla Camera di Commercio era arrivato un giovane e dinamico presidente, Vito Artioli, strategicamente collocato a metà strada (era di Tradate), che giusto 50 anni fa, nel 1973, metteva tra i punti chiave del programma il potenziamento delle sedi di Busto – Castellanza.
Ecco dunque l’idea dei “comprensori”, che piaceva soprattutto ai sindaci dei comuni più piccoli. La prima riunione vide una folla di amministratori e politici. A Villa Ponti erano 250, accalcati anche in piedi, a discutere di cose non marginali, anche costituzionalmente, tipo le competenze e il rapporto con la Provincia: svuotarla o collaborare? Alla seconda riunione, un paio di mesi dopo, i presenti erano molto meno e c’era anche qualche sedia vuota. I se e i ma crescevano. La terza riunione, prevista per dare risposte, non si tenne.
Facciamo un salto ancora più indietro a Varese. Nel 1967, l’amministrazione comunale guidata da Mario Ossola, esponente di una Dc che ha il 43% dei voti in città e 18 consiglieri su 40 in Consiglio comunale, vara un Piano Regolatore Generale che, come si usava a quel tempo, dal calcolo delle volumetrie ammesse ipotizza una città in grado di moltiplicare gli abitanti più dei pani e dei pesci del Vangelo, fino a diverse centinaia di migliaia di abitanti. Una cifra che appare uno sproposito, che sarà ridimensionata con la revisione dello stesso PRG, nel luglio 1973, con la successiva amministrazione, sempre a guida Ossola e con il socialista Luigi Ambrosoli all’Urbanistica: gli abitanti non potranno crescere oltre 130 mila. (a quel tempo la città ne aveva 85 mila: ben più dei 78 mila attuali).
Non erano comunque numeri a caso. Tra il 1961 e il 1971 la Provincia di Varese – e il capoluogo non era da meno – aveva stabilito il record di crescita nazionale, con un aumento della popolazione del 26%: a quel ritmo, i 100 mila abitanti avrebbero potuto essere raggiunti prima del 1990. In realtà, dopo il 1981 la popolazione cominciò a scendere. Un secondo motivo era più strategico: la chiara percezione, per usare le parole di amministratori di allora, era che “o si mangia o si è mangiati”, un po’ come pianeti vicini che esercitano la rispettiva forza gravitazionale. Varese avrebbe potuto crescere anche con l’aggregazione di comuni della zona, sviluppando una dimensione metropolitana che, a sua volta, avrebbe voluto dire sviluppo di funzioni amministrative, terziarie, commerciali, accademiche e vi dicendo.
Sappiamo poi quel che è successo: desertificazione industriale in città e nel Nord della Provincia, “sviluppo condizionato” dove due grandi magneti – la Svizzera e Milano – attraggono almeno un lavoratore su sei della provincia, una “fotografia d’impresa” che, rispetto al resto della Regione, privilegia le piccole dimensioni aziendali e il settore industriale rispetto al terziario avanzato.
I problemi restano aperti. Da una parte c’è una conurbazione Alto Milanese, molto Milano-dipendente, che comprende non solo Gallarate e Busto Arsizio (con l’area Malpensa) ma anche Castellanza e, fuori provincia ma contigua, Legnano. Dall’altra c’è un nord da “hic sunt leones” sulla carta geografica, spolpato in termini di risorse lavorative da Svizzera e Milano, con un enorme problema di attrattività economica. Il tutto in una provincia il cui capoluogo rappresenta solo l’8,8% degli abitanti, contro il 13,8% di Como, il 14,2% di Monza-Brianza, il 10,8% di Bergamo, il 15,5% di Brescia. L’idea di “piccolo è bello” non regge più.
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