«Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita»: è l’epitaffio — una frase dello scrittore francese Paul Nizan — che Marco Riva, ventunenne redattore del Quotidiano dei lavoratori, scelse per sé in una lettera scritta ai familiari prima di suicidarsi l’8 gennaio 1971.
Queste parole per contrasto mi sono tornate in mente al termine della lettura della bella biografia che il giornalista Walter Gatti ha dedicato al cantautore Claudio Rocchi, dal titolo “Essenza”, edito da Caissa.
Scrivo “per contrasto” perché tra i tanti pregi di questo libro, ricchissimo di fonti, citazioni, testimonianze, foto, canzoni, vi è anche quello di raccontare come sia stato possibile da parte di alcuni attraversare i tremendi anni di piombo senza per forze abbracciare la lotta armata e la violenza. Erano gli anni in cui la rivoluzione si insegnava dai giornali e dalle cattedre, incuranti di come chi leggeva o ascoltava tra i banchi prendesse sul serio le parole incendiarie di sedicenti maestri : «Far la farfalla rivoluzionaria mentre altri stanno giocando la vita non è mai stata e mai sarà azione progressista ed umana», commentò in maniera ‘tranchant’ il drammaturgo Giovanni Testori.
Claudio Rocchi, per chi è nato negli anni Cinquanta, è un punto di riferimento imprescindibile: ha scritto canzoni e poesie, fondato comunità religiose, creato progetti di musica elettronica, diretto film sperimentali, tradotto testi orientali, calcato i palchi di mezza Italia. Titolare di “Spazio Rocchi” nel 1971 all’interno della mitica “Per voi giovani” di RaiRadio 2 (dove si avvicendarono tra gli altri Carlo Massarini, Paolo Giaccio, Mario Luzzato Fegiz, Massimo Villa, Fiorella Gentile) ha contribuito a diffondere, prima dell’avvento delle radio libere, la musica della West Coast: David Crosby, James Taylor, Jony Mitchell ma anche Ten Years After e Melanie. La prima diffusione in Italia di “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin passa per la sua trasmissione. “Volo magico n.1”. “La tua prima luna”, “La realtà non esiste” erano programmazioni abituali nelle scalette della nostra “Radio Supervarese”.
Mistico e non-violento, Rocchi – che pur si è speso sui palchi di tutti i raduni alternativi degli anni ’70 e ’80, protagonista di innumerevoli peregrinazioni da Milano al Nepal, dalla Sardegna alla Toscana, da Parco Lambro agli Hare Krishna – scrive dopo il primo Festival di “Re nudo” a Ballabio: «Una piccola divisione tra la gente: il pugno alzato, la faccia seria e consapevole ma non rilassata di quanti qui hanno portato la convinzione che il mondo e la gente si possano cambiare con la rivoluzione fatta di violenza contro la violenza, ma sempre di violenza. Dall’altra parte il colore ma soprattutto la calma e la disponibilità di quanti invece sentono che la gente non si può cambiare, ma solo forse accendere perché per ognuno, per conto suo in mezzo agli altri e quindi insieme agli altri, maturi la sua chiarezza, la sua coscienza, il suo amore. Quindi c’è chi dal palco dice “compagni lotta dura senza paura”. E chi dice invece “fratelli non abbiate paura di amare”.
Rocchi è morto nel 2013 per una grave malattia degenerativa che lo ha colpito alle ossa. Ha attraversato tutte le stagioni che dagli anni ’70 ci hanno portato all’attuale millennio e che Gatti ricostruisce con certosina meticolosità. “Più che un mestiere nella vita io voglio fare l’Uomo” scrive in un verso di una sua canzone: ed è bello vedere che le domande sul senso dell’esistenza che permeavano quegli anni sono le stesse negli odierni adolescenti, magari sepolte sotto quintalate di social ma immutate nella loro “Essenza”.
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