Recentemente ha tenuto banco sui media la vicenda di Indi Gregory la bambina di 8 mesi al centro di una disputa legale tra i genitori e l’alta Corte del Regno Unito. Finita in modo tragico con la morte della bimba, la querelle riguardava il permesso di un suo trasferimento in Italia (paese che nel frattempo con procedura di urgenza le aveva dato la cittadinanza italiana) per un ultimo disperato tentativo terapeutico.
L’Alta Corte britannica ha deciso infine di staccare le spine alle macchine che mantenevano in vita la piccola suscitando ovviamente una serie infinita di reazioni e considerazioni.
Nel cercare di spiegare cosa provoca nello specifico questa malattia, voglio in realtà rimarcare il dramma e le difficoltà che stanno dietro a tutto il mondo delle malattie rare non solo per chi ne è portatore ma anche per la famiglia ed il tessuto sociale che le circonda.
Ricordo che per malattie rare si intendono quelle patologie che colpiscono 5 persone ogni 10 mila, fino ad oggi se ne conoscono circa 8 mila, molte delle quali hanno una incidenza sensibilmente più bassa, come appunto quella della piccola Indi.
Per incidenza in sanità si intende quanti nuovi casi di malattia emergono in un dato arco temporale (un mese, un anno eccetera). Non riguardando quindi un gran numero di persone, non hanno un reale interesse commerciale per le case farmaceutiche molto più interessate ad investire in campi più remunerativi se non altro come numeri.
In particolare la malattia della piccola Indi è conosciuta come Malattia da Deplezione del DNA Mitocondriale e, nel caso specifico, nella sua variante encefalomiopatica.
I mitocondri sono dei componenti cellulari che entrano in modo determinante nella capacità della cellula di produrre energia fungendo quindi come piccole ma numerose centrali energetiche. Una diminuzione della loro attività pertanto comporta l’incapacità del tessuto dove loro dovrebbero essere attivi di produrre energia sufficiente. L’effetto finale è ovviamente devastante in generale, ma in particolare in quei tessuti che hanno una necessità costante di lavorare come cervello e cuore e per i quali quindi la ‘benzina’ necessaria al loro funzionamento è vitale.
La forma che attacca le cellule cerebrali è particolarmente aggressiva e letale ed a oggi non esistono terapie specifiche in grado realmente di bloccare o vincere la malattia ma solo trattamenti atti ad attenuarne i sintomi.
Il quadro di queste malattie è in realtà eterogeneo perché può anche colpire più organi contemporaneamente con sintomi quindi che variano in base alle diverse funzioni che possono essere perdute.
Disfunzioni epatiche (quando colpisce il fegato), ritardo psicomotorio (sistema nervoso), ipotonia-debolezza muscolare (sistema muscolo scheletrico), alterata motilità gastrointestinale (apparato digerente) eccetera.
La causa è una mutazione di diversi geni ma perché la malattia si manifesti è necessario che entrambi i genitori ne siano portatori in modo recessivo (senza evidenti segni di malattia).
La patologia si manifesta nei primissimi giorni di vita più frequentemente, o nell’infanzia, e nella maggior parte dei casi porta a morte entro i due anni. Esistono comunque in letteratura casi rarissimi di sopravvivenza anche in età adulta.
La discussione nasce dal fatto che sia l’Alta Corte britannica che quella Europea (che si era espressa in precedenza su di un caso simile) viste le statistiche, hanno ritenuto che le terapie sintomatiche altro non facciano che sostenere una vita di sofferenze prolungando una agonia dall’esito certo e lo ritengono pertanto un accanimento terapeutico.
Classico esempio dove sanità, etica, religione, sensibilità, economia e molto altro, creano uno scontro inevitabile di posizioni.
You must be logged in to post a comment Login