Quanto vale un contratto? Non è la prima volta che il mondo dello sport, locale e non, si trova a porsi questa domanda. E a darsi una risposta sconsolata: poco o nulla.
Julio Velasco ha lasciato la Unendo Yamamay Busto Arsizio Volley per coronare il sogno di tornare a sedersi sulla panchina di una nazionale, nel caso di specie quella dell’Italia femminile. Il nome del protagonista è uno di quelli che hanno travalicato la passione sportiva per diventare “generalista”, cioè universalmente conosciuto, familiare anche a chi di schiacciate, bagher e muri non si interessa nemmeno casualmente, perché le imprese dell’allenatore argentino da ct della nazionale maschile negli anni Novanta del secolo scorso lo hanno posto in quel pantheon che solo pochi personaggi – alla Tomba, alla Pellegrini, alla Valentino Rossi – possono abitare.
Forse è per questo che la notizia del suo approdo estivo ai porti pallavolistici della nostra provincia aveva fatto scalpore ed era stata vissuta come un rilancio della punta di diamante del volley locale. Ed è stato in virtù della medesima grande fama che le agenzie sulla sua fuga da Busto hanno fatto nei giorni scorsi il giro d’Italia.
Velasco è stato costretto a dimettersi per poter allenare le azzurre, all’apice di ore frenetiche e litigiose. Prima l’emergere della possibilità di riassumere il ruolo di commissario tecnico – un desiderio suo e della Federazione – poi il tentativo di risolvere la questione senza abbandonare le “farfalle”, ovvero la richiesta avanzata dalla UYBA di derogare al divieto di un doppio incarico, rimandata al mittente dai federali. Infine la reazione rabbiosa della società biancorossa, trovatasi spalle al muro, con un allenatore in procinto di fuggire a stagione già abbondantemente iniziata, cornuta e mazziata: ben servito a Velasco, che tecnicamente però si è dovuto dimettere, e richiesta danni alla Federvolley.
Quanto vale un contratto (la scatola nera dell’affaire Julio dovrà peraltro chiarire se in quello firmato tra l’argentino e Busto sussistevano clausole d’uscita in caso di chiamata azzurra, come sostiene la Federazione, oppure no, come accampa la UYBA)? Torniamo all’inizio: poco.
A noi cestofili incalliti non può non sovvenire un caso molto simile accaduto pochi mesi fa nel mondo della Pallacanestro Varese, fino al 20 luglio 2023 allenata dall’americano Matt Brase. Come dite? Non è lo stesso allenatore che siede oggi sulla panchina del sodalizio? Vero, ma non c’è stato alcun esonero: Brase è letteralmente fuggito alla chetichella prendendo al volo una proposta da assistente fattagli dai Philadelphia 76ers, franchigia della NBA, nonostante fossero già scaduti i termini per uscire dall’accordo che dopo la positiva (ma alla fine penalizzata dal caso Tepic) stagione 2022/2023 avrebbe dovuto proseguire anche in quella successiva.
E a confermare che i contratti valgono molto relativamente nel mondo dello sport, ecco che Pallacanestro Varese, dopo averla a microfoni spenti minacciata, ha rinunciato persino alla sacrosanta pretesa di un risarcimento, azionabile proprio in virtù di quanto scritto nei termini legali dell’agreement con il suo ormai ex coach in caso di rottura oltre il termine di libero svincolo. Perché? Perché gli scripta è vero che manent, ma poi arriva la realtà: quella di una causa da portare oltre oceano, quella dei tempi dilatati, quella del rischio di scontrarsi e di rovinare i rapporti con un mondo molto più potente, la NBA.
La morale – e viene in mente, sempre restando al basket, l’addio di Frank Vitucci 10 anni fa, promesso sposo di Avellino quando ancora Varese si stava giocando le sue chance scudetto e il coach la guidava strizzando contemporaneamente l’occhio al biennale sottoscritto qui – è che lo sport già da tanto tempo ha sdoganato il tradimento.
Con buona pace di coloro per i quali una palla che rotola, vola o si infila a canestro è solo cuore e passione, i “mariti fedeli” non esistono più: esistono solo migliori prospettive di carriera. Da prendere al volo, contratto o meno.
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