Quando sentono parlare di mostre immersive, i puristi storcono il naso. Io, invece, trovo che sia un modo lieve e divertente di accostarsi all’arte. È come entrare in una fiaba, soprattutto quando i visori della realtà aumentata ti proiettano dentro un quadro che si anima: puoi veder volare i corvi di Van Gogh, sbocciare le ninfee di Monet, emergere dalla conchiglia la Venere di Botticelli. Certo, sono più adatte ai bambini che agli adulti, ma mi piace pensare che qualcosa del bambino che eravamo sia rimasto in ognuno di noi e, comunque, per apprezzare queste esperienze, è necessario che già si siano conosciute, amate e contemplate le opere che vengono proiettate.
Durante un recente tour nel Casentino, ho visitato il castello di Poppi, dove è stata allestita la mostra Michelangelo rapito – capolavori in guerra dagli Uffizi al Casentino, che si avvale anche di due sale immersive. Entrando nella prima, mi preparavo dunque a stupirmi e divertirmi, ma non avrei mai pensato di commuovermi. Perché in realtà le immagini che scorrevano sulle quattro pareti e mi facevano dimenticare la scomodità della cassa sulla quale ero seduta – ne ho capito dopo il significato – raccontavano una storia che non conoscevo. Anzi, la storia era raccontata proprio da quel Michelangelo rapito che dà il nome all’evento: la Maschera di fauno, che, tra settecento e ottocento, fu riconosciuta come una delle opere di Michelangelo giovane, forse la prima. Gli sceneggiatori del filmato hanno voluto che fosse quella piccola scultura a narrare le sue peregrinazioni e a soffermarsi sull’episodio storico principale.
Così il Fauno ci conduce da una Signoria all’altra, da un castello all’altro, fino ad arrivare al 1942, quando dal Museo del Bargello, dove all’epoca si trovava, fu spostato nel Castello di Poppi. Ci spiega che era una delle centinaia di opere che, fin dallo scoppio della guerra, furono chiuse in casse – ecco perché eravamo seduti su una cassa! – e, dagli Uffizi e da altri musei cittadini, trasferite in campagna, dove si pensava potessero essere al sicuro, sottratte alle vicende belliche. Nel Casentino, furono sistemate nelle scuderie del castello di Poppi e nei sotterranei del Monastero di Camaldoli. Erano opere di Raffaello, Botticelli, Tiziano, Leonardo, Caravaggio… E, mentre la sua voce ci parla, filmati d’epoca mostrano le attenzioni, direi quasi l’amore, con cui venivano maneggiate e protette.
E qui comincio a emozionarmi, perché intuisco che quegli illustri dormienti, accolti in anonime casse e tutelati con il rispetto e l’affetto che meritano, potrebbero subire un brusco risveglio. Infatti, nell’estate del 1944, racconta il Fauno, un gruppo di Tedeschi in ritirata entrò nelle scuderie del castello e trafugò la cassa dove lui si trovava ed altre 36, con l’intento di portarle in Tirolo, sotto il controllo del Reich. Tuttavia, alla fine del conflitto, quasi tutte le opere trafugate vennero ritrovate dagli Alleati e dai funzionari italiani e restituite agli Uffizi. Il fauno no, non fu più trovato, ma è più presente che mai grazie alla voce che i curatori della mostra hanno voluto dargli. È diventato persino la copertina del volume L’opera da ritrovare, che è l’elenco di tutte le opere ancora oggi disperse da quel 1944.
Nella seconda sala immersiva non c’è più la voce del Fauno a guidarci, ma ormai possiamo capire che cosa vuole farci vivere: siamo completamente circondati da specchi su cui si formano le immagini delle opere salvate e, faccia a faccia con i personaggi raffigurati su ogni tela, ci sembra di essere dentro quelle casse, dove avevano riposato fino alla fine del conflitto.
Come non commuoversi vedendo che la passione per la bellezza è riuscita a vincere anche le atrocità della guerra e il sonno della ragione?
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