Con i campionati europei già avviati non parliamo, per una volta almeno, del calcio giocato (ci sono gli specialisti o presunti tali) né del calcio taroccato (troppo e nauseante) che va in scena nelle aule della giustizia sportiva e di quella ordinaria. Parliamo piuttosto di quello “parlato” che nell’era dell’informazione a tutto campo, planetaria, catastrofista e ripetitiva fino all’ossessione, occupa una fetta sconsiderata della scena mediatica. Tralasciamo i talk show ante e post partita, quasi invariabilmente condotti da avvenenti conduttrici, occhiutamente strizzate dentro abiti di taglie inferiori a quelle necessarie, per occuparci piuttosto dei telecronisti. Fino a una ventina di anni fa il cronista, radiofonico o televisivo, era solo, al più confortato da qualche tecnico audio, dentro la cabina dello stadio spesso gelida d’inverno e afosa nella bella stagione. Ora, almeno in TV, i cronisti sono quattro: la prima voce – chiamiamola generalista – che segue la partita, il commentatore tecnico – in genere un ex calciatore discretamente acculturato – più due colleghi a bordo campo, uno per panchina. Di questi ultimi almeno uno è donna, perlomeno a Sky, in armonia con le “quote rosa” ovunque. Insomma un bouquet di professionisti che in teoria dovrebbe garantire una fruizione ottimale delle spettacolo. In realtà accade assai di rado per tre semplici ragioni che stanno alla base del telecronismo calcistico imperante: la drammatizzazione dell’evento, la concorrenza tra i due commentatori principali, il linguaggio impiegato.
La drammatizzazione è ormai la cifra complessiva della telecronaca. Deve essere una sorta di condizione imperativa imposta dall’editore, in caso contrario non si spiega perché ogni tiro verso la porta venga sottolineato da puntuali quanto ingiustificate impennate della voce che assume invariabilmente toni assatanati da ultima spiaggia. Per rendersene conto basta assistere a una partita alla stadio – dove si ha immediata la percezione esatta della pericolosità o meno di un’azione e di un tiro – per poi confrontarla con i toni ingiustificatamente accesi, accalorati e ultimativi dei riflessi filmati successivi.
La concorrenza tra il commentatore generalista e quello tecnico è invece sempre latente, pronta a manifestarsi su un fallo controverso, su un calcio di punizione nei pressi dell’area di rigore, su un cambio non imposto da infortunio o da espulsione. Le voci tendono spesso a sovrapporsi incuranti del telespettatore che vorrebbe prima di tutto capire e che tra l’altro, particolare non secondario, vede benissimo pure lui quello che sta succedendo. Sembrano, il cronista generalista e quello tecnico, figli di un dio minore radiofonico tesi come sono a caricare di parole, talvolta dissonanti, immagini che invece parlano da sole.
E veniamo infine al linguaggio ormai stabilmente infarcito di espressioni che poco o nulla hanno a che fare col gioco del calcio. Se sotto porta gli attaccanti falliscono qualche occasione di troppo, cioè sbagliano “goal già fatti” come si dice in gergo, non difettano di decisione, di determinazione, di convinzione, difettano di cattiveria e di cinismo. Un’occhiata al dizionario sarebbe salutare perché scoprirebbero gli avventurati cronisti di ultima generazione che i termini cattiveria e cinismo nulla hanno a che vedere col calcio. Cattiveria – dice il Garzanti – significa “essere cattivi cioè contrari alla legge morale, dannosi moralmente, capaci di indurre al male; cattivo è detto di persona che esprime astio, ostilità, odio”; cinico è invece “chi rivela disprezzo per ogni convenzione sociale e rimane indifferente a ogni sentimento e ideale umano”. L’esatto contrario dei valori che, nonostante l’inquinamento da troppo denaro e gli scandali relativi, stanno alla base della pratica calcistica e dello sport in generale. Insomma un linguaggio diseducativo per chi pratica il calcio e per chi lo guarda ascoltando appunto i nuovi rètori della palla, in particolare se si è bambini o ragazzini. Ma ci si può utilmente difendere, ricordiamocelo, abbassando l’audio del televisore o escludendolo come del resto raccomandava Paolo Grassi, presidente Rai dal ’77 all’80. In uno degli inevitabili quanto pensosi convegni sulla televisione, spazientito una volta non mancò di far notare ai presenti che in fin dei conti avevano pur sempre a che fare con un elettrodomestico e che come tale era dotato di interruttori per essere acceso, spento o quanto meno con l’audio escluso.
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