Sono i bambini, sempre loro, le prime vittime della guerra.
Lo sappiamo bene. Li avevamo visti nei filmati dei piccoli ebrei assiepati dietro il filo spinato, nei campi di sterminio. Ricordate Terezin?
Li abbiamo scovati nelle strade delle città occupate dai carri armati della Seconda guerra mondiale. I poveri sciuscià, ripresi mentre lustravano le scarpe dei più ricchi o dei soldati americani nelle strade di Napoli, li abbiamo poi ritrovati nelle prime tv in bianco e nero degli anni Sessanta. Erano anch’essi figli poveri della guerra e del dopoguerra.
E li abbiamo seguiti con apprensione nel Vietnam assediato -grazie alle vecchie pellicole e ai reportage di chi era là per dare testimonianza degli orrori.
La piccola che alza le braccia al cielo e fugge nuda e in pianto dalle bombe al napalm che le ustionano la pelle, in uno scatto rimasto nella storia della fotografia, era vietnamita. Si chiamava Kim Phùc. Era il 1972. La inseguiva la guerra. Salvata dallo stesso fotografo che l’aveva ritratta (Nick Ut, dell’Associated Press, che vinse il Pulitzer per la fotografia nel ‘73), fu costretta per anni, e ancora oggi, a sottoporsi a dolorose cure. Anche Alan Kurdi, il piccolo siriano caduto bocconi sulla spiaggia turca nel 2015 era inseguito dalla guerra. Ma non gli fu dato di mettersi in salvo come Kim. È entrato nella lista degli angeli annegati, assieme a molti altri innocenti dispersi nei mari, sulle rotte di un disperato navigare.
E sono ancora dentro di noi lei immagini delle migliaia di bambini africani, assediati dalla fame, dalle mosche, dalla lebbra, vittime innocenti delle tante guerre intestine che devastavano e ancora oggi assediano il continente. Chi non ricorda i piccoli del Biafra, coi pancini gonfi per la carenza di vitamine, gli occhi enormi carichi di domande, raccontati dai missionari e dai reporter? O quelli feriti e mutilati dai machete, nelle capanne bruciate dal genocidio in Ruanda.
I bambini mutilati di Kiev, quelli non uccisi dalle bombe tra le rovine di case, scuole e ospedali, ci rimandano ai minori offesi a suo tempo dalle mine in altre parti del mondo.
I piccoli israeliani li abbiamo invece immaginati e purtroppo anche visti, vittime della furia di Hamas. Così come i bambini palestinesi dilaniati, amputati, insanguinati, fatti a pezzi e bocconi dalle bombe, o incastrati sotto le macerie delle case e degli ospedali, le gambe spenzolanti sotto blocchi di cemento. Tutta “roba” di questi giorni.
E che dire delle giovanissime iraniane, poco più che bambine, accecate o colpite nelle parti intime a fucilate, per ferirne la dignità e il corpo in un colpo solo.
L’elenco è sgradevole, certo, lo sappiamo e lo vediamo ogni giorno. Ma lasciate che se ne parli.
Si potrebbe continuare all’infinito, comprendendo tante altre parti di mondo dove la guerra, apparentemente cessata, continua a produrre vittime tra gli innocenti.
Gaza è un cimitero di bambini, raccontavano in queste sere nei tiggì. E lo ha detto anche Guterres. Mentre Papa Francesco, mettendo a parte il suo raffreddore, accoglieva presso di sé 7mila bambini provenienti da 84 paesi del mondo.
Capita spesso, come succede a tutti, di incontrare madri a passeggio con i loro bambini in carrozzina. Mi piace di questi tempi osservarli più che mai. Guardare gli occhi luminosi e i lineamenti minuti, i loro abbozzi di sorriso spennellati di stupore, di una precoce, giocosa ironia, mi dà grande consolazione. Mi fa sentire in pace.
Penso con sollievo che, almeno loro, sembrano bambini contenti. Mi viene di ringraziare per la gioia di vederli cosi belli e vispi. Nonostante il mondo.
Sorrido alle loro mamme, cosa che non osavo fare prima, forse per pudore, per rispetto di momenti così personali.
E mi accorgo che il sorriso è sempre ricambiato. Un grazie non detto, ma di commossa, sottesa complicità.
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