Saxa Rubra, ore 8.45. Si consuma al bar della Rai il tradizionale rito della colazione dopo i faticosi Gr1 del mattino. “Cornetto e cappuccino” avrebbe detto Carlo Chiodi.
Siamo sei, sette colleghi. Come accade da alcuni giorni a questa parte il discorso scivola subito sulla situazione dell’azienda. Non in buona salute, come è noto. Un Consiglio di amministrazione scaduto, i partiti che litigano sulla legge, la raccolta pubblicitaria in calo. In più, ascolti non esaltanti proprio per la radio.
La discussione si fa subito accesa. E come sempre intorno al tavolo si accusa chi questo chi quello della situazione. Ci si divide per schieramenti. Si chiedono cambi al vertice. Si invoca un non meglio identificato salvatore della patria eccetera eccetera. Ad un certo punto una collega mi rivolge la parola e domanda: “Ma tu Paolo che ne pensi?”. Dopo un istante di silenzio rispondo: “Tutto quello che avete detto sino ad ora può essere condivisibile, ma una discussione sulla nostra situazione che non parta dalla gratitudine per avere un posto di lavoro, in un momento in cui tanti non l’hanno, mi sembra non tenga conto della realtà”.
Silenzio intorno al tavolo. La percezione è che le mie parole le avrebbe potute dire il famoso marziano a Roma di Ennio Flaiano. Nessuno replica, qualcuno alza le spalle, con la prima scusa ci si alza e si torna al lavoro.
Ho ripensato spesso a quell’episodio nei giorni successivi. E più l’ho pensato più mi sono convinto di aver messo a tema, non certo per merito mio, una cosa ‘vera’ e che non viene mai a galla nelle nostre discussioni: la gratitudine.
Viviamo sulla scia di una ragione ridotta. Reagiamo a quello che accade nella realtà secondo le nostre reazioni più istintive, passiamo davanti a ciò che si vede tutti i giorni (gli affetti, la casa, il lavoro, gli amici, i vicini, la natura) senza vederlo davvero.
Così le settimane, i mesi passano ma non lasciano consistenza, misurati solo in quel poco che si capisce razionalisticamente, tagliando via a fette il Mistero, cancellando la gratitudine per quello che già c’è stato donato.
Accade forse solo dopo un lutto, una malattia, un imprevisto della natura, di accorgersi con stupefatto rammarico di quanto si aveva ‘prima’ e di cui non ci si è mai accorti. Ma un lavoro che porti a galla questa coscienza nella normalità della giornata è l’ultima cosa che ci viene in mente di fare.
Guardo con malcelato timore in TV le immagini che arrivano dall’Emilia. Ascolto preoccupato i resoconti per radio dei colleghi inviati e che mi parlano di paura se non di disperazione. Provo a immaginare come reagirei io se fossi chiamato a perdere tutto in un istante e vivere solo di quanto il Destino dispone giorno per giorno.
Ha scritto il cardinale Carlo Cafarra, arcivescovo di Bologna, in una bella lettera ai suoi parrocchiani colpiti dal sisma: “Non perdiamo mai la coscienza della nostra fragile condizione di creature. La cultura in cui viviamo ha fatto di tutto per oscurare questa consapevolezza. Chi vive in questa oscurità venga nelle nostre terre; si fermi un istante a guardare quelle rovine e non farà fatica a capire che chi ci ha insegnato all’uomo ad essere padrone di se stesso, lo ha tragicamente ingannato”.
Riportiamo a galla nel nostro essere la gratitudine per quello, poco o tanto, che abbiamo. Prima di ogni progetto sulla giornata, prima di ogni azione da intraprendere nella vita. Sarà la miglior medicina per vivere in una società sempre più inquieta e nichilista.
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