Il 5 novembre di un secolo fa nasceva a Varese Pasquale Macchi. Segretario di Montini, arcivescovo di Milano e pontefice, fu poi arciprete al Sacro Monte. Il suo capolavoro: far salire sulla via delle Cappelle, fino al santuario della Madonna nera, Papa Giovanni Paolo II.
Quando s’affacciò dal balcone del Mosè era ormai calata la sera e faceva freddo. Ci aveva messo un’ora e un quarto a salire dalla prima alla quattordicesima cappella e poi ancora qualche minuto per trasferirsi lassù, dove avevano issato perfino una madonna in polistirolo alta otto metri per accoglierlo come si doveva. Sessantamila anime tutt’attorno al pellegrino tra i pellegrini, alla veste bianca che si mischiava ai riflessi del sole basso di novembre, al lento arrampicarsi nella recita del rosario. L’avevano atteso a lungo, Giovanni Paolo II. C’era chi s’accampò durante la notte, pur di non perdere la prima fila. Chi chiese il permesso al datore di lavoro. Chi radunò, e non gli succedeva da tempo, la schiera dei parenti portandosela dietro. Fu, quel 2 novembre dell’84, una festa di fede e popolo, di commozione e fraternità. Il Papa sfuggito alla morte e salvato, assicurava lui, dall’intervento della Madonna, veniva qui proprio a trovare lei. La signora nera della nostra montagna. Suscitò emozione anche tra quanti non frequentavano abitualmente le chiese e gli oratori, i confessionali e le opere pie: si chinarono ammirati al passaggio, vinsero i pudori e non rinunziarono ad applaudirlo.
Il predicatore polacco ricordò la lezione di San Carlo: compiere opere di santificazione personale. Cioè sacrificarsi per gli altri, l’unico modo per non sacrificare il meglio di sé stessi. I notabili della città ascoltarono e presero coscienza, o si suppone che lo facessero. Ma la sollecitazione andava a tutti. E poi, a pensarci bene, non sarebbe stato neppure necessario che il Papa parlasse: bastava il linguaggio dei suoi occhi a far capire ciò ch’egli voleva si capisse. In fondo comunicò una cosetta semplice e straordinaria: ci sono tesori che nessuna ruggine può corrodere e nessun ladro rubare, si chiamano amore e giustizia, verità e bene. Onestamente: quale laico avrebbe potuto, e potrebbe, obiettare sulla consistenza e il significato d’un tale patrimonio? Quale inquilino di questo mondo si sarebbe potuto, e si potrebbe, permettere di discutere sui valori di testimonianza, partecipazione, dialogo esaltati da un così raro avvenimento? Quale incontentabile non avrebbe provato un minimo di contentezza assistendo allo spettacolo della massima spontaneità collettiva che tributava d’un colpo, di cuore e idealmente, la cittadinanza onoraria d’un remoto angolo di Lombardia al vicario di Roma? E quale sensibilità non avrebbe colto nel privilegio dell’incontro concesso dal pastore cristiano ai malati, alle suore romite, ai residenti sacromontini la sottolineatura della primazìa di cui sono meritevoli la sofferenza, la meditazione, la famiglia?
Lo scortarono, sulla via sacra ideata dall’Aguggiari e dal Bernascone, l’arcivescovo Martini, il vescovo Citterio, il prevosto Pezzoni, l’arciprete Macchi. Fu lui, il don Pasquale che declinava modestamente l’appellativo di monsignore fin dal tempo in cui era il segretario di Paolo VI, a promuovere l’evento, dettarne contorni e tempi, farne il momento più intenso del rilancio di spiritualità e cultura del Sacro Monte iniziato nel ’78. La società politica, capitanata dal sindaco Gibilisco e dal ministro Zamberletti, apprezzò e condivise, prese degl’impegni e li lasciò in eredità ai successori. Sarebbe seguita, oltre ai restauri d’alcune cappelle, la riattivazione della funicolare. Non sarebbe seguito altro di memorabile e neppure di significativo: l’arricchimento artistico lungo l’antico acciottolato rimase (è rimasto fino ad oggi) qualcosa a metà tra il progetto e il sogno; il vecchio borgo ha reclamato attenzioni municipali -parcheggi e strutture di servizio- che si sono perdute in un succedersi distratto di promesse; lo spopolamento dell’ex baluardo contro gli eretici ha impoverito di radici un luogo che ne andava orgoglioso.
Ai biscotti che Wojtyla sgranocchiò, prima di ripartire in elicottero dal piazzale Pogliaghi, bevendo un tè caldo nel salottino di Macchi, sopravvive unicamente il sapore di madeleine proustiana: quando la memoria lo recupera, si accendono i riflettori su quella giornata. Poi arrivano (arriveranno, continuano a ad arrivare) le ombre. Che non sono quelle positive dipinte dal Caravaggio per esaltare la luce e caricare di simbolici chiaroscuri i suoi quadri e neppure quelle, altrettanto positive, poetate da Borges per tessere l’elogio dell’intimità e sfumare i colori troppo pacchiani della vita. Sono, molto più semplicemente e purtroppo negative, le ombre della mediocrità. Che si conserva tale anche quando è aurea.
Don Pasquale Macchi viene ricordato con iniziative e celebrazioni. Il 5 novembre alle 11.30 nel cimitero di Casciago preghiera davanti alla sua tomba. Alle 15.30 nella basilica di San Vittore Vespro d’organo col maestro Roberto Mucci. Alle 16.30 nel battistero di San Giovanni rievocazione tenuta da monsignor Ettore Malnati, Vicario Episcopale per la Cultura della Diocesi di Trieste, per anni stretto collaboratore di Macchi. Alle 17.30 in San Vittore messa presieduta dall’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini.
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