Flavio Vanetti, esordi giornalistici alla Prealpina e poi una lunga carriera alla Gazzetta dello Sport e al Corriere della Sera, rievoca nel libro “Il nome della Rosea” personaggi, storie e burle degli anni-boom del più famoso quotidiano sportivo italiano. Un libro curioso e informativo, dove le notizie sono la rivelazione di cosa c’è dietro le quinte d’un lavoro duro e affascinante. Vanetti ha tra l’altro raccontato, nella sua carriera, quindici Olimpiadi ed è pronto a raccontare la sedicesima, a Parigi ’24. Ecco l’introduzione.
Luigi, mio nonno materno, in modo assolutamente bonario aveva coniato un soprannome per La Gazzetta dello Sport: L’Oppio Rosa. Mancò nel 1979 e non fece in tempo a vedere che il nipote, nel 1982, sarebbe andato a lavorare proprio lì.
Pensando a lui avevo immaginato che “L’Oppio Rosa” sarebbe stato un titolo simpatico per raccontare i miei sette anni alla “Gazza”. Ma c’era il rischio, non conoscendo il lettore il presupposto di partenza, che si equivocasse, dando un’interpretazione negativa. Nel dubbio, ecco allora “Il Nome della Rosea”, sintesi di un viaggio che sono stato a lungo incerto se raccontare: il pericolo era di scrivere qualcosa di troppo autoreferenziale e di discutibile interesse.
Mi sono così sforzato di cercare una chiave che potesse funzionare e alla fine, una volta trovatala, mi sono persuaso che fosse il caso di tentare. La Gazzetta che ho incontrato e che ho vissuto fino al 1989 è stata quella degli anni del suo boom editoriale (avviato peraltro tra 1977 e 1980), un’onda che all’epoca si basava prima di tutto su tirature dai numeri formidabili alle quali è seguito un incremento costante e impetuoso dei lettori, fino a raggiungere la leadership assoluta sul piano nazionale. Ancora oggi, pur in un mondo editoriale profondamente cambiato e che non offre più la possibilità di stampare ogni giorno 500-600 mila copie (sfondando il muro del milione al lunedì), quel primato resiste.
Ecco allora che ha un senso risalire alle radici del fenomeno e spiegare quanto sia stata azzeccata e vincente la formula voluta da Gino Palumbo e poi ereditata da Candido Cannavò. Però, per evitare di dare vita a qualcosa di troppo didascalico, e in definitiva barboso, c’era la possibilità di raccontare anche qualcosa di segno diverso. In quella Gazzetta c’era infatti modo di divertirsi, pur nelle more di un impegno duro e serio: c’erano personaggi particolari, c’era un lessico specifico, c’erano fatti e situazioni curiosi, c’era cameratismo – nonostante non mancassero, come in ogni posto di lavoro, rivalità, bisticci e dispetti – e c’era perfino spazio per gli scherzi. Confesso: io di burle in quei sette anni ne ho organizzate parecchie – la narrazione mi ha aiutato nella memoria: molte le avevo quasi dimenticate… – e qui ne ricordo alcune combinandole con altre vicende a mio avviso gustose, aiutato in questo da “spie” e “fiancheggiatori” che ora ringrazio per il loro contributo. Mi aspetto che qualcuno mi insegua con il randello: in tal caso vedrò di contattare i miei amici Extraterrestri e di invitarli a difendermi.
In definitiva, “Il Nome della Rosea” è un libro che cambia piani come un ascensore: rammento pagine importanti di giornalismo, però le unisco a sezioni più leggere, diciamo pure di cazzeggio. Spero che il risultato sia di valore e divertente. Di sicuro nella narrazione ho messo entusiasmo, passione e cuore, affrontando anche momenti di nostalgia perché i ricordi, perfino quelli belli, sono in fondo le cicatrici dell’anima e della nostra vita.
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