Più o meno un anno fa, Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nel corso di una conferenza, ebbe a dire che “Noi [europei viviamo in] un giardino, il resto del mondo è una giungla”. Parecchi presero male quest’affermazione, soprattutto fuori dall’Europa. Perché, si disse, aveva un sapore neo-colonialista, sembrava voler far risaltare la (presunta) superiorità dell’Occidente sul resto del mondo. E per questo, gli vennero rivolte anche accuse di razzismo. Forse, Borrell avrebbe dovuto dire che l’Europa solo adesso (!) è diventata un giardino. In passato, in un recentissimo passato, è stata un territorio di morte, è stata il teatro di guerre cruente e infinite, che l’hanno insanguinata per secoli. Un ciclo tragico che si è concluso solo una settantina d’anni fa, con la fine della seconda guerra mondiale, con decine di milioni di vittime. Non sappiamo neanche bene quanti siano stati a perdere la vita in quel conflitto. Di certo, più di sei milioni di persone sono morte durante l’Olocausto. Ed è scomparso dalla faccia della terra tra il 10 e il 20% della “popolazione complessiva dell’URSS, della Polonia e della Jugoslavia; dal 4% al 6% della popolazione della Germania, dell’Italia, dell’Austria, dell’Ungheria, del Giappone e della Cina” (Hobsbawm). E molti altri ancora in Gran Bretagna, Francia, ecc. Per dare un’immagine sintetica di che cosa abbia voluto dire tutto questo, basta pensare al fatto che in URSS, nel 1959, c’erano “tra le generazioni di età tra i 35 e i cinquant’anni, sette donne per ogni quattro uomini”. Non c’è bisogno di dire altro.
Tuttavia, è vero che adesso, da decenni, godiamo di una sostanziale tranquillità. Le ragioni di questa bonaccia sono molte tra cui, l’equilibrio atomico del terrore. Ma altrettanto importante, credo, però, sia stata la capacità di creare le condizioni politiche per attenuare le differenze economiche e sociali che c’erano tra gli stati d’Europa e che avevano fatto da detonatore nei tanti conflitti precedenti. L’Unione Europea è stata la “stanza di compensazione” delle tante particolarità e delle tante divisioni. Con fatica, però, è riuscita a far sedere allo stesso tavolo vincitori e vinti, popoli che fino a poco prima si erano combattuti aspramente, restituendo pian piano a ciascuno la dignità di esistere. Mentre altri teatri di quel conflitto, come la Palestina, non hanno goduto dello stesso trattamento. Anzi, sono peggiorati. Le condizioni di disagio che si sono create a ridosso della fine del secondo conflitto mondiale (1948), non hanno dato alcuna compensazione e sono state esaltate all’inverosimile le disuguaglianze, nell’illusione che potessero convivere territori estremamente avvantaggiati, accanto ad altri destinati alla povertà più assoluta. Conflitti come quelli del maggio di due anni fa, che han devastato i territori di Israele/Palestina, sono stati relegati rapidamente nel dimenticatoio. Ce ne siamo scordati subito (per primo chi scrive). E come gli struzzi, abbiamo messo la testa sotto la sabbia per non vedere quel dramma, considerando che quelle sofferenze, tutto sommato, contassero meno di altre e confidando nel fatto, più o meno consapevolmente, che Israele avrebbe risolto ogni cosa con la supremazia militare.
Adesso, certamente, Israele ha il sacrosanto diritto di difendersi da un attacco terroristico come quello di cui è stata oggetto in questi giorni, che non ha eguali nella storia, per efferatezza. Ha il diritto di rispondere. Ma deve farlo nella consapevolezza di essere uno stato di diritto (un po’ sui generis, per la verità), che risponde anche alle offese più gravi sulla base di regole. Su tutto quel che sta accadendo, indubbiamente, pesa la storia, pesano le decisioni prese nell’ormai lontano 1948 con le espulsioni, con le confische dei territori, da cui è nato un sentimento di oppressione e “l’insopprimibile speranza dei palestinesi di recuperare il diritto al ritorno”. I terroristi di Hamas stanno cavalcando queste pulsioni e tengono sotto ricatto l’intero popolo palestinese, favoriti dalle politiche dell’ultimo quindicennio in cui è stata alimentata spregiudicatamente “ogni sorta di conflittualità: tra ebrei e palestinesi, tra ebrei e musulmani, tra destra e sinistra, tra religiosi e laici” (Segre 2021). Sta al nuovo governo israeliano di ampia coalizione mitigare la risposta militare. E in questo quadro l’Europa, non può stare a guardare come sta facendo. Deve trovare il modo di far pesare la sua autorevolezza. Potrebbe essere lo spunto per rilanciare un’idea di Unione più densa di quella attuale, per diventare un interlocutore efficace anche in crisi internazionali come questa. Diversamente, rimarrà un giardino inutilmente bello.
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