Era fine estate, inizio anni Novanta.
Nel giardino della grande casa affacciata sul verde di Velate due bambini si rincorrevano tra loro, prima di tuffarsi nell’acqua di una piccola piscina in gomma, planando sul fondo colore del cielo.
Il dono della nonna era arrivato giusto per allietare le giornate ancora molto calde, preludio a una delle consuete ottobrate varesine che da sempre riescono a svelarne la piena, dolce bellezza del paesaggio collinare d’autunno.
Un’armonia di colori e delicati gorgheggi e un sentore dolceamaro di erbe e fiori regnavano attorno, cornice di un giorno che sarebbe rimasto segnato, nel calendario del tempo, tra le pagine di un giornale.
La nonna -lo aveva spiegato ai nipotini- aspettava quel pomeriggio un‘ospite: curiosa di sapere della sua vita di medico, ma anche, e soprattutto, di donna. Cioè della sua scelta di moglie, e matriarca ormai, di una famiglia che s’era andata allargando negli anni.
L’ospite arrivò all’ora stabilita. E domande e risposte presero da subito a inseguirsi, trovando i giusti accordi all’ombra del giardino.
S’iniziò dalla scelta di aver voluto fare il medico. Si parlò della professione, arrivata dopo gli studi classici e universitari, succeduti oltretutto agli affanni di una terribile guerra. “Abitavamo a Milano dov’ero nata, ma eravamo sfollati a Velate, come tante famiglie milanesi. Nel tempo tornai a Milano a guerra finita. Ma quando mi sposai -e non avevo ancora terminati gli studi- scelsi di abitare qui, nella casa del nonno. Una casa molto amata, che mio marito Emilio ed io abbiamo curato e accudito negli anni, con impegno e amore. E qualche sacrificio”.
Nella casa la dottoressa e il marito avevano condiviso coi tre figli nati dal matrimonio, Elisa, Alberto e Chiara, un’intera vita. Allietata da un grande amore per la musica e la poesia. E ancora condividevano, seppure in misura ridotta, “perché ogni tempo ha i suoi ritmi”, l’impegno della professione. Che ne faceva da sempre una coppia esemplare e richiesta. “Medico anche lui, mi ha capita da subito e aiutata, non sarebbe altrimenti stato facile lavorare e occuparsi della famiglia”.
Le fu chiesto quel pomeriggio, semmai lo ricordasse, quanti malati avesse curato, e quanti anni di fatiche affrontate.
“Ho fatto un conto di trentamila persone, in 34 anni. Spesso ne incontro qualcuna, mi rammarico perché non sempre rammento i volti”. Ma il rapporto che si instaura con l’assistito, quello sì, lo serbava bene in mente.
C’era una cura nel seguire il malato che diventava totale per lei e il consorte, quasi un patto di ferro, fino all’esito della malattia. Come dicessero: io non ti abbandono e mi occupo di te, sàppilo, finché ne avrai bisogno.
Proprio come coi nipoti. A proposito di nipoti, ci tenne a sottolineare che a legarli era un filo di tenerezza davvero molto forte. “Forse perché il ruolo del genitore ha tempi più veloci e impazienti, i tempi dei nonni e dei nipoti sono più lenti e dunque più sereni”.
Ripercorreva la sua vita di medico, la scelta di essere anestesista, anziché rimanere in Rianimazione col collega bravissimo, e marito. “Forse perché mi piace vedere il risultato nell’immediato. Subito dopo l’operazione parli col tuo paziente, il risveglio è un momento bellissimo, quando ti guarda negli occhi e si sa che tutto è terminato. Abbiamo comunque lavorato insieme in sala operatoria per anni, in ospedale o nelle cliniche private.” E anche la stima per la professione esercitata, e per i colleghi, spesso malpagati e costretti a fare turni esagerati, non era mai venuta meno. “Nelle strutture pubbliche manca personale e le private sono utili proprio laddove non c’è la sanità pubblica, troppo oppressa dall’intrusione politica e dalla conseguente disorganizzazione”.
Arrivò alla fine di altre curiosità la domanda dell’ospite più urgente, quella tenuta per ultima. Come si fa a rapportarsi così spesso con la morte, e a comunicarla agli altri?
“Certo è difficile sapere che dietro la porta ti aspetta un parente cui devi comunicare un decesso. E molto lo è, magari ancora di più, chiedere il permesso di un trapianto d’organi, che pure è così importante e indispensabile per chi sta aspettando da anni”.
Ma -incalzò l’ospite- potrebbe essere vero, come qualcuno ha detto, che si fa il medico per vincere la paura della morte?
“Non lo credo. Per me almeno non è stato così. Non ho paura della morte, ho sempre pensato che faccia parte della nostra esistenza”.
E dunque? “La scelta è stata per me piuttosto di guardare alla vita, nell’essere, ancora oggi, parte attiva di quel magnifico lavoro datomi, che aumenta la speranza e la rende realtà”.
Stefania Longoni Bortoluzzi, la nonna medico, deceduta lo scorso 10 agosto, si raccontò all’ospite nel settembre del ‘91 nel suo giardino di Velate.
L’intervista fu pubblicata in Lombardia Oggi, inserto de La Prealpina, nello stesso autunno.
L’ospite ringrazia Elisa, figlia di Stefania, per averne chiesta una riproposizione, dopo la riscoperta della pagina di giornale tra le carte della mamma.
Lo abbiamo fatto con tanto affetto, seppur usando meno parole e nuovi strumenti. Com’è necessario per assecondare i tempi.
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