Non 25 anni di Università dell’Insubria, bensì il doppio esatto. Su una ipotetica moviola del tempo scorrono le immagini di quanto ho avuto in sorte di raccontare con altri bravi colleghi da quando il 15 gennaio del 1973 esordirono a Varese corsi pareggiati del secondo triennio di Medicina e Chirurgia gemmati da un antico e prestigioso ateneo, quello di Pavia. La scena si svolse in uno scantinato del reparto di Geriatria all’ospedale di Circolo. Fu un lampo improvviso, una novità annunciata in prima pagina sulla Prealpina che col direttore di allora, Mario Lodi, aveva capito la svolta epocale.
Sembrò scommessa estemporanea la dislocazione accademica in questo territorio quando le università storiche erano non solo sovraffollate, specie in alcune facoltà, ma anche preda di turbolenze. È significativa la risposta di Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell’Istruzione, a quanti, anni prima, erano andati a chiedergli a Busto, dove inaugurava un centro di calcolo, come vedeva lui, da uomo di governo, l’idea dei corsi pareggiati. Egli disse ai questuanti: “Nulla è più definitivo del provvisorio, in Italia. Andate avanti, datevi di fare”.
Ma chi erano quelli che dovevano andare avanti e dovevano darsi da fare? Mario Ossola, sindaco democristiano di Varese, tisiologo, ex partigiano bianco, Giovanni Valcavi, presidente dell’ospedale di Circolo, avvocato socialista accreditato nei salotti buo0ni dell’alta finanza, Fausto Franchi, imprenditore di Saronno, presidente della Provincia. C’entrò la politica? Ovvio, ma in una declinazione diversa da quella percepita oggi. C’entrò la “classe dirigente” tratto caratteristico della politica in Lombardia. Quando nacquero le regioni nel 1970 Milano scelse come primo presidente un uomo del fare, l’esponente di una dinastia industriale, Piero Bassetti. C’entrarono poteri forti? Anche: personaggi di varia umanità e cultura che sapevano dove mettere le mani e avevano spalle talmente larghe da poter sopportare contrarietà feroci al discorso accademico. Sta di fatto che quel giorno di gennaio del 1973 – c’erano ancora le luminarie di Natale, era caduta la neve nella notte – un gruppo di giovani visi pallidi, futuri dottori trasferitisi avventurosamente da Pavia e da Milano, stava di fronte al professor Delfino Barbieri, primario del Circolo. Lezione di patologia medica, banchi recuperati alla meglio, dall’alto la benedizione del rettore dell’università pavese Antonio Fornari e del preside di facoltà Mario Cherubino.
E cominciava l’avventura universitaria in una città che con alcuni dei suoi leader aveva capito una cosa: cominciavano a sbriciolarsi i primari economici, tirava aria di trasferimenti altrove per centri decisionali di banche e grandi industrie, anche lo sport che aveva fatto sognare i varesini e richiamato inviati di grandi giornali per narrare le gesta di Morse e di Anastasi, fiutava un ridimensionamento. Non c’è ciclo della vita
che non contempli salite, traguardi e poi discese.
Ecco che l’università si poteva rivelare una nuova vocazione, fresca perché mobilitava le nuove generazioni. La giostra si mise in moto. Con il lancio di Medicina che doveva diventare il secondo dipartimento di Pavia; con l’istituzione a Varese di una facoltà di Biologia, auspice il rettore della statale di Milano Paolo Mantegazza, il quale villeggia alla Rasa tra i suoi canarini; e infine con l’arrivo sempre dall’ateneo pavese di corsi di Economia. Passava il tempo, calavano i venti contrari, ma cominciava a serpeggiare la domanda galeotta: e adesso chi paga il conto, chi si accolla le spese dei corsi, delle sedi, del personale?
Gli industriali si sfilarono dal consorzio universitario statale andando a investire in un ateneo privato a Castellanza. La Provincia restò sola a finanziare l’università ancora lontana dal traguardo dell’autonomia. E fu proprio la Provincia a mettere a disposizione negli anni 90 (presidente Massimo Ferrario) l’ex collegio San’Ambrogio di sua proprietà per la sede del rettorato, mentre tra l’ospedale di Circolo e Bizzozero prendeva forma la cittadella degli studi oggi arricchita da un campus.
Erano gli anni in cui l’università c’era ma non c’era ancora. Gli anni più insidiosi durante i quali qualcuno ipotizzava il peggio: se i conti non tornano, se Roma non ci sente, stacchiamo la spina. Poi il pessimismo sfumò
sul tramonto del secolo e il 14 luglio 1998 ci fu la storica fumata bianca.
L’università “sibi nomen imposuit” Insubria e io conservo una bottiglia di Fernet Branca recapitatami alla Prealpina dai deputati Giancarlo Giorgetti e Giovanna Bianchi: avevo scritto che bisognava abituarsi a un nome indigesto, seppur simbolo di una felice intuizione geopolitica e storica. Ma più felice fu il colpo decisivo dell’allora Luigi Berlinguer, il quale aveva capito che l’unico modo per fa nascere un nuovo ateneo statale autonomo nel Nordovest lombardo era un parto gemellare: Varese-Como. Nessuna delle due città da sola avrebbe avuto quello che fieramente ha ricevuto in dote. E che ora deve preservare e non sprecare.
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