Ho pensato spesso, in questi giorni, ai ragazzi che stavano facendo l’esame di maturità. In presenza, finalmente, dopo tre anni di didattica a distanza, banchi a rotelle e rime buccali. Chissà come se la sono cavata, chissà se anche per loro è stata un’esperienza positiva. Memorabile sarà stata senz’altro. Che cosa faranno adesso, fuori dal guscio protettivo della scuola? Il loro corso di studi li avrà messi nelle condizioni di affrontare studi più impegnativi o il mondo del lavoro?
Domande sollecitate anche dalla lettura di un’affermazione della filosofa ungherese Ágnes Heller: Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: prima di tutto, solo cose “inutili”, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose. (Ágnes Heller, Solo se sono libera).
Il problema è che questi studi richiedono fatica e gli effetti si vedono solo più avanti, quando ci si rende conto che i contenuti acquisiti in realtà sono secondari rispetto ad una formazione mentale che consente di affrontare ogni difficoltà – e, in fondo, la vita – in modo equilibrato e maturo. E quindi i ragazzi, abituati all’usa e getta, alla rapidità delle informazioni, all’immediatezza del risultato, non li affrontano volentieri.
In ogni caso, l’affermazione mi trova completamente d’accordo, ma mi fa anche temere per quei giovani che, avendo frequentato Istituti tecnici, non hanno potuto sviluppare appieno tutte le capacità su cui punta la “scuola dell’inutile”: la riflessione, l’approfondimento, l’analisi, la ricerca del bello, il valore dei sentimenti propri e altrui…
C’è un episodio dei miei anni di insegnamento che mi è ritornato in mente a questo proposito. Sto spiegando Leopardi e nel momento che, secondo me, dovrebbe essere più coinvolgente, dall’ultimo banco si alza una mano. Sconsolata penso: “Questo adesso mi chiede di uscire”. Invece no. Peggio. Così almeno mi sembra di primo acchito, quando lo sento chiedere: “Scusi, ma studiare Leopardi a che cosa serve?” “A niente” gli rispondo, cercando di controllare l’irritazione e intanto mi rendo conto che mi sta offrendo l’opportunità di chiarire la questione anche per gli altri.
“Non serve a niente. Non ti serve ad impastare la malta o ad alzare un muro, né a capire la differenza tra una curva circolare e un tornante (era una classe dell’Istituto per Geometri). Quindi rassègnati: la letteratura ti dà solo la possibilità di capire te stesso e gli altri, ti fa riflettere sul senso della vita, ti apre orizzonti, ti rende sensibile alla bellezza, ti dà persino gli strumenti per costruire muri che non siano soltanto stabili, ma anche esteticamente apprezzabili. Ecco perché ha senso che voi la studiate”
Non so se fosse stato il contenuto della mia intemerata o, più probabilmente, il tono con cui mi ero espressa, fatto sta che il ragazzo tacque. E poi studiò Leopardi. E poi, ne sono convinta, capì anche, una volta diventato un po’ più grande, che avevo ragione.
You must be logged in to post a comment Login