Chi si accontenta non gode: il principio andrebbe ricordato a chi, a ogni livello, amministra quello scrigno di bellezza che è la Valganna.
Basta a una passeggiata estiva, in modalità cani da tartufo che invece del prelibato frutto della terra anelano ombra e frescura, per accorgersi (anzi per ricordarsi) che tra questi boschi, tra questi sentieri, in questa “Varese experience” tra le più intense e inebrianti, si potrebbe fare molto di più in termini di valorizzazione.
Un tesoro non adeguatamente e completamente fruibile, può ancora essere definito tale? La domanda rimane sospesa se si ragiona sulle Miniere e sulle cascate della Valvassera, una pertizione laterale della Valganna.
Le prime sono una diroccata testimonianza di un passato del nostro territorio che poche cronache restituiscono. Fino agli anni Sessanta, chi si fosse incamminato lungo i percorsi della Valganna più esterna non avrebbe incrociato gitanti in scarpe da trekking e pantaloni corti, ma minatori dagli occhi stravolti, il volto annerito dalla fuliggine e, sulle spalle, al posto dello zaino con la colazione al sacco, picconi e pale. Tanti i metalli cercati, tra di essi l’argento: una storia iniziata con gli Etruschi e i Celti e proseguita fino alla massima espansione nel diciannovesimo secolo, poi inevitabilmente avviata al declino e al successivo, definitivo, insabbiamento, dal crollo del mercato e dalle due guerre mondiali.
Quel che rimane oggi sono gli scheletri degli edifici di servizio, dispersi tra la rigogliosa vegetazione, e diversi cunicoli, fragrante testimonianza del lavoro di un tempo. Fossimo negli Stati Uniti (ma forse anche in Bolivia…), quanto descritto sarebbe un sito turistico di importanza rilevante: da noi, invece, anche solo raggiungere la meta risulta un’esperienza triviale. Le indicazioni escursioniste non mancano, ma sono contraddittore e a un certo punto si interrompono, non indicando dove si trovi – effettivamente – l’apertura delle miniere. Lungo la provinciale, poi, nemmeno un cartello ad avvisare della loro esistenza.
Perché rifiutarsi di ripensare, di promuovere, di gestire una potenziale fonte di richiamo per diversi visitatori? E poi, per altro verso: nessuno ha mai considerato quanto sia facile farsi male addentrandosi nelle gallerie così lasciate a se stesse, sprovviste di protezioni e completamente libere all’accesso, di quella libertà che fa rima con pericolosità e povertà (di idee e di cura)?
Restiamo in zona e in argomento: un giorno o l’altro qualcuno potrebbe passare una brutta mezza giornata alla ricerca delle cascate della Valvassera, prodotto del Creato quasi “mitologico”, in quanto esistente in realtà ma non sulla carta, contemplato solo in rete e conoscibile esclusivamente e accidentalmente dagli “smanettoni” che, prima di una passeggiata, si ingegnano con mappe e mappette online.
Qui non solo mancano i cartelli: non c’è proprio il sentiero. Per scovarle, in fondo a una serie di anse, bisogna risalire il greto del fiume, impresa semplice se quest’ultimo è in secca (ma nel caso lo sono anche le cascate…), accidentata quando l’acqua è presente. Il cellulare non prende, la strada è lontana, chi si infortuna di speranze non ne ha, se non quella di cavarsi da solo fuori dai guai. Avvisare del pericolo? Meglio: costruire un percorso?
Dulcis in fundo (ma l’espressione non è così calzante…), abbiamo lasciato la stortura a parer scrivente più grave: i parcheggi. Non adeguati, a servizio della splendida ciclabile che attraversa la valle e che, recentemente, è stata allungata. Dove lasciare l’auto? Alle Grotte, ma la ciclopedonale inizia molto più avanti. Oppure al Laghetto Fonteviva, facendo giustamente inalberare i gestori che i loro spazi privati vorrebbero conservarli tali. Oppure ancora in qualche spiazzo ai bordi della statale: una macchina qui e una, se si è fortunati, là.
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