Gioventù bruciata, dicevano di noi.
Un po’ per scherzo, ma un po’ anche per paura che certi esempi, ritenuti “poco educativi”, potessero portarci all’emulazione. Ci mettevano sul ‘chi vive’ insomma, con una fraseologia di allora. Eravamo negli anni Sessanta, le prime proteste dei giovani cominciavano a prender voce, sempre più forte. E riflettevamo, in parte orgogliosamente offesi in parte ‘scocciati’: ma cosa vengono a raccontarci? Però sotto sotto un po’ pensavamo a quei personaggi segnati alla radice dal destino, belli e dannati, spauracchi da evitare, insidiose sirene da cui allontanarsi al più presto.
Aveva i capelli biondi e gli occhi color pervinca come un angelo il seducente James Dean, protagonista di Gioventù bruciata, era il ’55, per la regia di Nicholas Ray. La vita gli fu più dannata del film premonitore – che al contrario graziava lui, nei panni di Jim Stark, e sacrificava l’amico – destinato a restare per sempre negli occhi e nel cuore di chi aveva lasciato la sala del cinema in lacrime.
Qualcuno per davvero sarebbe arrivato poi a bruciarsi negli anni Sessanta. Inchiodato da un destino ritagliato su pesanti problemi di famiglia, o inseguendo le chimere di ideologi esaltati, o annegando nel nulla, tra i vizi di amici che fumavano e bevevano per sentirsi più grandi e meno soli.
E se sui capelli lunghi dei Beatles si poteva sorvolare, impossibile contrastare i figli su certe cattive abitudini. Perché, esagerazioni genitoriali a parte, i problemi ci sono sempre stati, per ogni nuova generazione che s’affaccia alle prime prove della vita. Ma restavano allora circoscritti a una minoranza di adolescenti.
Oggi la minoranza sembra circoscritta ai giovani che di problemi ne hanno pochi. E soprattutto inquieta la prematura età di questa gioventù, che bruciata finisce davvero. Perché il timore è che sia difficile tornare indietro se si è dato inizio alla corsa sfrenata verso la delinquenza, nella considerazione pari a zero della vita propria e altrui.
Due gravissimi episodi; quello del giovanissimo scommettitore ‘armato’ di una grande e lussuosa Lamborghini, e quello degli assassini del giovane marocchino, un emigrato salvatosi dalla furia politica del suo Paese per venire a morire nel nostro Paese. Cosa ha potuto muovere tanto odio, perché il brutale attacco verso una persona buona, figura quasi familiare per chi frequentava una certa zona di Napoli?
Se il colore della pelle può suscitare tanta violenza e ferocia ancora oggi, in cosa abbiamo sbagliato? Cosa non abbiamo capito, cosa ci siamo dimenticati di comunicare noi tutti che siamo oltre con gli anni e siamo ancora qui a dover ricordare ai ragazzi di leggersi “La capanna dello zio Tom”?
Arrivava finalmente il tempo di poterlo leggere, un libro così importante. E la realtà, per noi allora lontana ma triste, prendeva dolorosa consistenza. Avevamo versato lacrime anche su quel libro. Avevamo capito che il tempo delle favole a lieto fine era finito. Ma pensavamo che almeno noi, e loro -i nostri futuri figli e nipoti- non ci saremmo più dovuti confrontare con l’odio vigliacco che sceglie il bersaglio in base al colore della pelle, alle convenienze economiche, alle ideologie bacate.
Potrebbe essere la voglia di affibbiare, a propria volta, le personali umiliazioni ricevute a uno che presumi più debole di te? Quasi che, in quel mortale scambio, si volesse uccidere l’immagine deleteria e reietta che si pensa di continuare a vedere di sé stessi negli occhi degli altri.
Diversa la storia dello scommettitore che cerca di diventare un supereroe, e soprattutto un ipermilionario che si affida all’inebriante immagine di sé proiettata sul web, forse alterato da qualche cosa di troppo ingerita. O, ancora di più, da una smisurata voglia di esibizionismo coniugata a un ritorno economico offerto dall’attenzione becera di contatti molto superficiali e stupidi on line. Più che l’incidente in sè, terribile, che ha portato poi alla morte di una bambina coinvolta, ha creato desolazione e ribellione la reazione immediata al fatto causato. Non è parsa quella che si potrebbe definire una dimostrazione di pentimento.
Si tratta di due episodi simili per crudezza e cinismo, per l’età dei soggetti interessati, che dimostrano quanto si siano allentate le attenzioni. Da parte della famiglia e della scuola. E da parte anche di tutti i servizi, sociali e territoriali, chiamati a guardare ai ai più giovani ai loro disagi, all’impreparazione, o addirittura alla sostanziale inesistenza, delle loro famiglie.
Vorremmo infine pensare che sia ben presente agli operatori sociali e agli educatori la necessità di essere a loro volta più umili, più semplici, meno esigenti sul piano formale, ma più attenti e vicini alla sostanza delle cose.
Meno distanza, non significa affatto farsi mancare di rispetto. Ma dimostrare al contrario che se ci si confronta, ci si parla e si ascolta senza alzare la voce -soprattutto da chi i toni deve insegnare a tenerli bassi, genitore o insegnante che sia- il rispetto arriva e porta i suoi frutti. Meno note sul registro, che a poco o nulla servono, meno sfuriate in casa per la minima banalità, ma qualche parola garbata e amorevole in più sarebbero già un buon rimedio contro le difficoltà quotidiane.
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