Moltissimi di noi hanno avuto un motivo di gratitudine o di vicinanza con Berlusconi: io per il grande Milan. Altri per un supposto alt al comunismo che sarebbe stato in arrivo – quando in Italia non c’era già più – o per aver cambiato l’Italia.
In effetti in quest’ultimo intento c’è riuscito. E, paradossalmente, c’è riuscito per il suo essere contro la politica, lui che ne aveva goduto per molto tempo l’appoggio per i suoi successi imprenditoriali in tutti i campi da quello delle costruzioni a quello televisivo.
Gli anni finali della Prima Repubblica gli avevano arato e coltivato il campo con la grande crisi politica innescata dalla caduta del muro di Berlino, le ripetute tangentopoli, le difficoltà finanziarie del Paese. Non c’è dubbio che sia “disceso in campo” anche per tutelare il suo impero dopo aver imparato a sedurre le folle con la televisione. Ma lui ha saputo cogliere il momento giusto per salire sull’onda montante dell’anti-politica rendendola più forte e guidandola.
Se rileggo il suo messaggio del 1994 lo trovo magistrale per come aveva saputo presentare agli italiani la promessa e l’immagine di una svolta nettamente liberale poi mancata nella realtà. Nel confronto televisivo aveva surclassato Occhetto agli occhi del pubblico. L’appeal era diverso, lui parlava al popolo che chiedeva novità mentre l’altro appariva vecchio nell’immagine e nella comunicazione.
Cosa resterà del berlusconismo? Non mi riferisco a Forza Italia il cui destino pare segnato ma al sistema politico. Una cosa mi sembra certa. Berlusconi è passato rapidamente dal liberismo al liberal-populismo che di fatto è una contraddizione in termini. Dall’intermediazione dei partiti, dei sindacati e delle organizzazioni sociali, a quella delle corporazioni, delle potenti lobby industriali ed economiche a cui portava linfa vitale. Non un bel passo avanti.
Di Berlusconi critico pesantemente moltissime cose fra cui il “con me o contro di me” ma salvo la suggestione maggioritaria che ha contributo ad alimentare e che il centrosinistra dovrebbe riscoprire concependosi e strutturandosi molto meglio come forza di governo temporaneamente all’opposizione.
Piuttosto che gli esecutivi di breve durata, dal carattere incerto ed ibrido, sottoposti ai ricatti di piccole minoranze ideologiche, è preferibile un sistema che produca un vincitore ed uno sconfitto sul piano politico e non su quello tattico e provvisorio dei cambi di casacca e della compravendita dei posti di potere.
Semplifico e vengo alla stretta attualità: i partiti – mi rivolgo alle attuali minoranze – si misurino al voto in modo autonomo, cioè non intruppati dentro liste di coalizione, ma prima delle elezioni indichino da che parte vorrebbero stare. Non c’è nulla che si sappia dopo le urne in termini di progetti e programmi che non si fosse saputo prima.
Solo il risultato e le opportunità si sanno dopo, meglio gli opportunismi che il risultato offre.
È anche questo che genera la difficoltà del governare e aumenta il distacco e la diffidenza degli elettori.
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