Il 2 giugno l’Italia ha riaffermato, per la sessantaseiesima volta, la missione che la sua millenaria civiltà le ha imposto e che l’avvenire dei suoi figli le ha affidato riconoscendosi in una Repubblica. Tuttavia, ci chiediamo se questa incrollabile fiducia nei destini del nostro Paese sia ben riposta e non sia, invece, un’illusione che rende le belle parole che saranno pronunciate nella ricorrenza soltanto vuote parole. Questo affiorante pessimismo, però, non è riuscito ancora a devastare del tutto la nostra idea di Repubblica e di democrazia. Se nella sua accezione latina, Repubblica significa cosa di tutto il popolo e, per democrazia, i greci intendevano comando di popolo, il 2 giugno abbiamo festeggiato non un’astrazione ma un popolo in carne e ossa. Sì, perché la Repubblica non è un freddo monumento marmoreo da agghindare una volta l’anno, la Repubblica Italiana sono i nostri genitori, i nostri figli, il sindaco, il parroco, i nostri problemi, i nostri errori, le nostre sofferenze, i nostri sogni, i nostri progetti, siamo noi tutti. In altre parole, essa è carne viva e dolente.
Di là della retorica, ci crediamo ancora in queste celebrazioni rituali? Siamo portati a pensare di sì. E, allora, perché man mano che passa il tempo le sentiamo sempre più lontane da noi? Cos’è, per esempio, che il 2 giugno ci impedisce di far garrire il Tricolore a ogni finestra, a ogni balcone e sul nostro spirito trasformando, così, una celebrazione rituale in un’autentica, sentita festa di popolo? Il momento gramo che stiamo attraversando non giustifica una defezione che dura da anni, anzi, è nei momenti grami che un popolo dovrebbe sapersi agglomerare intorno ai propri miti unificanti, come la Repubblica.
La verità è che il prendere atto che noi viviamo in un (abbastanza) libero ordinamento repubblicano che, però, va difeso, protetto e accresciuto, introduce nella spensierata vita dei giovani e in quella disillusa dei vecchi un compagno di viaggio scomodo, con cui nessun di noi vorrebbe mai fare i conti: il dovere. Sì, perché indipendentemente dall’età, censo e livello di responsabilità, è dovere di ognuno di noi concorrere, concretamente, al progresso della comunità nazionale, di amare la propria terra, le libertà fondamentali e, soprattutto, di essere un cittadino a modo e vigile. Alcuni si domanderanno che c’entra la Repubblica che andiamo a festeggiare col dovere di essere vigili. Ebbene, bisogna essere vigili perché la nostra Repubblica è minacciata dalla “dittatura del sistema”. Il fatto che in giro non si vedono carri armati, che a votare ci andiamo e che ognuno di noi fa ciò che gli pare non deve trarci in inganno perché questa semplicistica visione della libertà è ingannevole; in effetti, viviamo oppressi dalla mefitica alleanza d’interessi che si è venuta a saldare tra l’industria, la finanza, i partiti politici, le banche e i media. Benché una tale alleanza non sia – almeno sotto il profilo operativo – scientifica, sennò saremmo da un pezzo fuori dall’ordinamento democratico e repubblicano, essa è nella forza delle cose, nella strutturazione stessa della civiltà globalizzata.
Oddio, la premessa è impegnativa e il concetto è complesso, ma possiamo tentare di ridurlo ai minimi termini ricorrendo a un esempio al quale lo scrivente sovente ricorre. In quelle repubbliche indipendenti che sono le nostre case, esiste un piccolo utensile di democrazia diretta, un attrezzo creato per agevolare – almeno in fatto di televisione – la nostra facoltà/libertà di scegliere, il telecomando. Ebbene, proprio il telecomando è diventato l’emblema del nostro penoso soggiacere a questa dittatura sistemica che minaccia la Repubblica. Se, infatti, proviamo a cambiare canale quando non abbiamo intenzione di sorbirci le pubblicità televisive, ci accorgiamo che è inutile fare zapping perché anche per gli stacchi pubblicitari le varie emittenti televisive – concorrenti a parole – in realtà si sono messe d’accordo anche sui tempi della pubblicità, sicché dobbiamo, e sottolineo dobbiamo, sorbirci impotenti la loro invadenza. In altri termini, è il sistematico soggiacere a cose che avvengono al di fuori della nostra volontà e sopra le nostre teste a caratterizzare il nostro fluire quotidiano.
Certo, democrazia è comando di popolo, ma questo resta un semplice assunto se, poi, quel popolo non ha la libertà neppure di cambiare canale televisivo. Certamente che Repubblica significa cosa di tutto il popolo. Se il popolo, però, è vigile e sa mobilitarsi in difesa dei propri diritti e delle libertà sostanziali. A questo punto, alcuni lettori staranno scivolando nel penoso convincimento che la nostra Repubblica stia alla Res publica latina come una camicia di forza sta a quella profumata che indossiamo ogni mattina e che, pertanto, non valga proprio la pena festeggiarla. E sbaglierebbero. Perché il 2 giugno non è soltanto un rito o lo stanco ricordare il lascito di libertà di coloro che per essa soffrirono o morirono, ma anche (e soprattutto, giunti a questo punto) fare argine intimidatorio alla dittatura di un sistema.
Lo so, la Repubblica che abbiamo in mente noi è quella in cui ogni singolo cittadino conti quanto i milioni di altri cittadini, e non sia soltanto un numero di codice fiscale negli archivi di Equitalia. La nostra Repubblica è quella in cui un giovane disoccupato, un padre o una madre che perdono il posto di lavoro devono divenire un problema di tutta la comunità nazionale, e non soltanto dei diretti interessati. La nostra Repubblica è quella in cui il risultato di una partita di calcio sia deciso dalla bravura dei calciatori e non dalla loro disonestà.
La nostra Repubblica è quella in cui esista la libertà di scegliere e non la sua fotocopia. Scegliere, è questo ciò che, in definitiva, pretendiamo di poter liberamente fare. Allora impariamo a batterci per tutte queste cose. Il 2 giugno è l’occasione ideale per iniziare a far sentire la nostra voce, per mettere con le spalle al muro chi ha, e ha avuto, la disattesa responsabilità di ben governarci in questi sessantasei anni di tormentata vita repubblicana.
Per raggiungere tale scopo, siamo ancora in quella fase, dove non v’è bisogno di armi, di violenza o di cortei, ma di quei gesti simbolici e semplici che per il “potere” sono sempre stati più devastanti di una valanga che rotoli a valle, come quello di fare atto di presenza aprendo una finestra ed esporre il Tricolore. Se lo facessero tutti gli italiani, il messaggio sarebbe chiarissimo, in modo particolare per gli screditati fomentatori di divisioni, per gli ignavi e i terroristi, per le rapaci oligarchie e le congreghe para-mafiose, per la cattiva politica e la cattiva finanza: “Guardate che noi, cittadini sovrani, siamo stanchi di veder fare strame del sogno di Mazzini, dei martiri della libertà, della nostra Repubblica e del nostro futuro”.
A quel punto, forse, rinsavirebbe perfino la politica, conscia del fatto che i popoli stanchi di angherie e soprusi, alla fine, mettono mano a forche e forconi. Insomma, il prossimo 2 giugno noi cittadini – i cosiddetti amministrati – abbiamo la possibilità di insegnare a chi governa il nostro destino terreno perché per i palazzi del potere è vacanza e nelle nostre case, invece, è festa.
You must be logged in to post a comment Login