Ho conosciuto Enrico nei suoi anni varesini.
Non che mi sia riuscito di essergli amico, no.
Se ne stava per conto suo.
Di quando in quando, ci trovavamo in treno.
Ferrovie Nord, verso Milano.
Frequentava ingegneria (io, giurisprudenza), se ben ricordo.
All’epoca, giovane davvero, non gli riusciva ancora – se mai gli riuscirà dopo – di sopportare l’attenzione che i suoi due metri e dieci suscitavano e soprattutto le frasi cretine che gli venivano rivolte.
Ricordo in particolare la fastidiosissima, guardando alla smorfia che faceva, domanda
‘Che aria tira lassù?’
In uno sport, la pallacanestro, nel quale più si era lunghi e più si doveva essere bravi e possibilmente decisivi, lui, il più lungo, non ebbe mai a sfondare.
Una certo naturale lentezza.
Ma anche una sottesa insofferenza dettata da una qualche riflessione interiore che lo aveva portato a concludere che non gli andasse di essere considerato solo per l’altezza, quasi fosse un fenomeno da baraccone.
E deve avere sempre patito grandemente se è vero che a quarantasei anni decise di lasciarci.
Appresa la nefasta notizia, come invariabilmente m’accade in questi casi, mi sono chiesto se non fossi in qualche modo – sia pure in piccolissimo grado – responsabile di quel definitivo gesto.
Chissà, ho pensato, come sarebbe andata la sua vita se non l’avessi trascurato?
Se avessi trasformato quel nostro rapporto così da convertirlo in amicizia?
Sono sempre, almeno in parte, colpevole di quanto accade a chi comunque conosca, lo so!
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