“Tutta l’infelicità degli uomini deriva dal non sapersene stare chiusi in una stanza”.
La frase è di Pascal, e mi colpisce perché ho sempre pensato davvero che la difficoltà di un rapporto buono con se stessi e con il nostro prossimo stia nell’incapacità di rimaner fermi ad ascoltarsi in uno spazio silente e racchiuso.
Le donne, più degli uomini, amano in genere il silenzio delle pareti domestiche, la calma che vi si respira, la rassicurante presenza di oggetti amati: i quadri, il vaso coi fiori freschi, i libri lì pronti a farsi leggere, basta che ne vuoi uno e te lo prendi e lo riapri, magari su pagine che in passato ti hanno colpita, o rassicurata o consolata. E puoi perderti a sognare o pensare tra quelle pagine, leggendole una dopo l’altra, per ore. Senza accorgerti del tempo che passa. Chi si lascia invece prendere facilmente dalla voglia di andare, o meglio di muoversi, non sempre coglie il dono di quella grazia che non costa niente, che può offrire molto più di quanto si pensi… Se magari sai anche riempire quella stanza di musica, di buone letture, di lavori gradevoli e amati come la pittura o il disegno, il ricamo o la scrittura, o di un colloquio sereno e piacevole, anche a distanza, con una persona che ti capisce.
Durante la pandemia abbiamo fatto questo esercizio di incontro e reincontro, con noi stessi e con le quattro pareti, con monastica dedizione e pazienza, nel silenzio quasi assoluto: tolti i rumori dell’esterno, le sgommate delle auto che transitano per strada, i clacson, le urla a gola spiegata. Eliminate le tentazioni dell’evasione da casa, gli incontri in presenza con gli amici, persino le visite in chiesa o ai musei.
E un po’, come allora, l’incertezza attuale di un tempo primaverile uggioso e capriccioso- di questo maggio votato più all’acqua e al maltempo, ai temuti temporali e grandini che all’ariosa leggerezza primaverile- un po’ ci deprime e ci impone domande. Davvero è cosi difficile starsene con se stessi? Perché questo è: esaminarsi allo specchio che rimanda i nostri lineamenti, le rughe degli anni, non solo quelle in vista, ma quelle più nascoste dentro l’anima, che ti fanno a loro volta domande.
Chi scrive, in genere, si appaga della riservatezza di rimanersene a tu per tu con la propria persona, in un territorio limitato come quello di una stanza. Virginia Woolf ne implorava una tutta per sé, con la possibilità di chiuderla a chiave, perché quell’esercizio di penna e di confronto con la sua anima le fosse agevole e non fosse minacciato da nessuno. Ma se avesse capito che avrebbe dovuto rimanersene più a lungo in quella stanza per gustarne la ricchezza delle piccole cose, e di una vita preziosa come la sua, senza mischiarsi alle voci sbagliate, e farsi attrarre dalla tentazione di uscirsene fuori – persino fuori da se stessa- senza sapere dove andare, forse non avrebbe disceso la riva erbosa del prato scivolando fino all’acqua, sempre più giù, sempre più dentro. Forse…
Ecco, se capissimo che la felicità parte anche da una stanza chiusa -magari quella a noi più cara, dove la luce arriva meglio e illumina ogni giorno un particolare mai notato- forse impareremmo a fermarci, a rispondere a noi stessi con un sorriso.
Gino Paoli aveva scritto la sua più bella canzone dedicandola a una stanza che ‘non ha più pareti’, immersa nel cielo. È insomma una stanza della felicità: che pare disegnata da Chagall, con due cuori innamorati dentro.
Ma Pascal era andato -va- più in là.
La sua richiesta è di non avere paura, ma di darsi il tempo di guardarsi dentro, nella necessaria solitudine. Cercando la propria anima nel silenzio che porta all’Amore.
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