Nel mese di giugno arriverà in Italia l’ultima Barbie immessa nel fiorente mercato delle bambole dall’americana Mattel: la storica bambola, nata nel lontano 1959, in questa versione riproduce le fattezze di una giovane donna affetta dalla Sindrome di Down.
La nuova Barbie veste un abito colorato di fiori e farfalle gialli e blu, porta un plantare alla caviglia come sostegno alla camminata, indossa una collana rosa che rappresenta le tre punte del 21esimo cromosoma, quello responsabile della sindrome.
La notizia, datata 26 aprile, mi ha posto qualche domanda sull’impatto che questi giocattoli potranno avere sulla percezione della propria disabilità, in una società che fatica a realizzare una accettabile inclusione.
Prima di scriverne ne ho parlato con due persone: una esperta di problemi psicologici, l’altra dotata di buone competenze pedagogiche. Ho effettuato anche una ricerca in rete sull’accoglienza della notizia nei diversi siti, sia giornalistici sia specialistici.
Mi sono imbattuta in due commenti diversi tra loro, provenienti da personaggi disabili: l’apprezzamento dell’atleta paralimpica Giusy Versace e lo stupore con cui Alex Zanardi, numero uno dello sport disabile, mostra scetticismo per il politically correct a ogni costo.
Commenta Versace: «Se le bambole possono diventare strumento di educazione e formazione culturale, perché no? In queste Barbie vedo che il messaggio d’inclusione c’è ed è importante». Scrive l’altro: «Oh, è solo una domanda: non staremo esagerando col “politically correct?».
Mi sono chiesta se una bambola Down tra le mani dei bambini affetti da tale sindrome riuscirà a produrre nel tempo qualche benefico effetto. Sapranno cogliere la stretta somiglianza tra i tratti distintivi della bambola Down e i propri? A sentirsi gratificati dal riconoscimento di un altro sé? E se invece il bimbo Down preferisse giocare con le bambole in dotazione agli altri compagni?
Infine la Barbie Down dovrebbe essere offerta a tutti i bambini, non solo ai disabili con la medesima sindrome. Diventerebbe una bambola diversa tra le tante diverse.
Nel corso di questa breve auto-formazione ho concluso che sì, questo ulteriore passo della Mattel per l’accoglimento della disabilità per il tramite della Barbie e di Ken, è importante e utile.
Negli anni passati la Mattel ha avviato altre aperture all’inclusività: per abbattere gli stereotipi di genere più diffusi sono state prodotte Barbie grasse e Barbie magre, alte e basse, di pelle bianca e nera. Bambole che svolgono lavori di ogni tipo, dalla casalinga all’astronauta passando per la scienziata e l’ingegnera.
Questo percorso di riconoscimento della diversità nel senso più esteso del termine ha registrato in passato Barbie e Ken in sedia a rotelle; affetti da calvizie precoce, da vitiligine o da alopecia; con protesi alle gambe o alle braccia; deambulanti con vistose stampelle; infine Barbie e Ken non udenti, portatori di apparecchio acustico.
Valutazioni ampiamente positive le hanno fornite le associazioni nazionali e internazionali direttamente coinvolte nel supporto alla disabilità dei soggetti Down.
Tre testimonial d’eccezione: la modella inglese Ellie Goldstein, affetta dalla sindrome in questione, la City Manager francese nonché scrittrice Éléonore Laloux ed Enva, modella e influencer. La Goldstein ha espresso grande commozione per questo evento che valorizza la diversità che non deve essere nascosta bensì essere clamorosamente messa in evidenza “là fuori nel mondo”.
Il testimonial italiano della bambola Down è Luca Trapanese, assessore al Welfare del Comune di Napoli, single, papà adottivo di Alba, bimba affetta da sindrome di Down. Su Facebook Trapanese scrive: “Oggi è un giorno speciale per Alba e per i bambini come lei!”
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