Scampati alla Shoah, larve umane dopo la deportazione nei lager del Terzo Reich, gli ebrei si erano posti il problema di dove andare a vivere. C’erano gli Stati Uniti che negli anni ’30 al varo delle leggi razziali avevano accolto migliaia di fuggiaschi, anche italiani, Arturo Toscanini, Rita Levi Montalcini, Enrico Fermi, fra i più noti. Pochissimi dei sopravvissuti avevano pensato di ritornare nel loro Paese di origine.
Il desiderio generale era un altro, ora che la guerra era finalmente finita. Raggiungere la Terra Promessa, la patria degli Avi, la Palestina. Impresa difficile, pericolosa. Il Regno Unito, governatore del protettorato palestinese, lo aveva severamente impedito. Ma il sogno era stato ugualmente coltivato, inseguito, programmato, infine raggiunto al prezzo di imprese memorabili sino a che, con il riconoscimento, sul finire del 1947, dello Stato di Israele da parte dell’Onu, la trasferta divenne una dolce vacanza. A migliaia gli ebrei toccarono le sponde agognate. La Palestina fu popolata e costruita con il volto di uno Stato democratico, lacerato tuttora da ferite profonde.
Tradate, la piccola cittadina della provincia di Varese, ricca del verde delle Groane, giocò dal 1945 in questa partita un ruolo decisivo.
Occorre fare subito una breve premessa. Nel 1938 era sorta in Palestina un’organizzazione ebraica, la Mosad Leayà Beit che, sotto il controllo politico dell’Agenzia Ebraica, aveva ricevuto il compito di organizzare l’immigrazione illegale per chi volesse giungere in quella terra sfidando il divieto britannico. L’Aganah si era assunto il compito di mettere a disposizione gli strumenti per il rientro, dirigendo l’esodo dall’Europa in canali che portavano alle rive del Mediterraneo. Lì, le navi messe a disposizione dall’Ente di Immigrazione, l’Aliyah Beth (immigrazione illegale verso la Palestina), sarebbero salpate verso la destinazione prevista.
Complessivamente dall’agosto 1945 all’8 maggio 1948 furono trasferite clandestinamente 77.589 persone. Fra le 20.480 e le 23.500 partirono dall’Italia. Circa 5 mila dal kibbutz di Tradate. Due i punti di raccolta: il Castello Stroppa di Tradate, ex sede dei parà della Repubblica Sociale Italiana e la villa Mayer di Abbiate Guazzone.
Jehuda Arazi, detto Alon, fu il comandante del campo. Due militari ebraici dell’organizzazione clandestina all’interno dell’esercito di Sua Maestà britannica, Meir Davidson di venticinque anni e David Salomon di ventun anni, si dedicarono a definire i particolari dei viaggi.
Per il primo viaggio furono prescelte duecentocinquantadue persone fra le trecentocinquanta presenti rispettando il criterio della precedenza dell’arrivo a Tradate da Auschwitz, Mauthausen, Bergen-Belsen, Celmno, Theresienstadt, Madajnek, Dachau, ecc.
Partenza il 14 dicenmbre 1945, arrivo a Naharia in Palestina il giorno di Natale. Non era stato facile far sapere agli esclusi che sarebbero partiti con la prossima nave ma tutti ubbidirono. La sera i dieci automezzi con teloni di plastica, per riparare i viaggiatori, erano partiti per le coste liguri dove si erano imbarcati, ben attenti a non farsi scovare dalle varie polizie comprese quelle Alleate sempre in agguato.
La nave aveva attraccato lungo una banchina semidistrutta dai bombardamenti alleati, abbandonata all’estremità sinistra del porto di Genova. Solo una volta al largo, il nome della nave fu cancellato dalla poppa e dalle fiancate e ribattezzata “Anna Senesh”, vittima dello sterminio. L’imbarco successivo avvenne il 7 gennaio 1946. Novecento persone partite da Tradate, salite sulla nave “Rondine” a cui fu attribuito in memoria il nome di Enzo Sereni, assassinato a Dachau. Questa volta non fu un viaggio tranquillo perché la Raf mitragliò, sino a che una corazzata inglese dirottò la nave dei profughi a Caifa dove i passeggeri furono arrestati ed internati per diverso tempo nel campo di Atlit.
I viaggi non si erano mai interrotti. Il 19 giugno 1946 da Vado Ligure, poco distante da Savona, era salpata la “Vedgwood” con 1290 ebrei del kibbutz di Tradate caricati nella notte su trenta camion con quaranta persone a bordo per ciascuno. Inutile dire la estrema difficoltà delle trasferte, la fame, la sete, il freddo, la paura.
Ma chi erano gli ospiti, a quale Paese appartenevano, che età avevano, cosa avevano fatto nei lunghi mesi dell’attesa? Su un campione di 9.174 profughi secondo i conteggi dell’Opei (Organizzazione Profughi Ebrei in Italia) compresi in un rapporto inviato alla Commissione anglo-americana d’inchiesta per la Palestina, era risultato che il 3% aveva sino a sedici anni, il 57% tra diciassette e venticinque, il 37% fra ventisei e cinquanta, il 3% più di cinquanta. Il 71% era polacco, il 9% rumeno, l’8% cecoslovacco, il 5% ungherese, il 3% lituano, il 3% greco, slavo e di altra matrice. 7.008 ex deportati avevano dichiarato di aver perso tutta la loro famiglia; 5.394 su 7.008 erano polacchi.
A sostenere finanziariamente l’operazione, con un esborso di 17 milioni 580 mila lire nel 1946, 10 milioni 832 mila lire nel 1947, 13 milioni 952 mila lire nel 1948, erano stati la Allied Commission, l’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) e il Joint (American Joint Distribution Commitee), un’ associazione di ebrei americani. Le spese di viaggio e di trasferta Tradate-Mar Ligure furono assolte dallo Hias (Hebrew Immigrant Aid Society) con sede a New York.
Ma un contributo enorme, forse decisivo venne dal contributo dei privati, primi fra tutti da Sally e Astorre Mayer. Sally (1875-1953), presidente delle Comunità Ebraiche Svizzere, e ricostruttore della dispersa Comunità Italiana ed il figlio Astorre (1906-1977), presidente della Federazione Sionistica Italiana, dedicarono tutto sé stessi in quel tempo drammatico alla solidarietà dei fratelli indigenti.
La loro villa di Abbiate Guazzone divenne la casa di tutti. Il kibbutz offrì a quella gente l’occasione per poter rinascere. Non si verificò nessun problema di ordine pubblico malgrado l’affollamento. L’accoglienza della popolazione tradatese fu calorosa. Si parlava in uno stentato italiano malgrado la comunità fosse un incrocio di diversi idiomi, una Babele di lingue, dall’yiddish, all’ebraico, al rumeno, al polacco, allo slavo, al russo. L’aspirazione era conoscere comunque l’ebraico per essere in grado, una volta raggiunta la Palestina, di sapersi gestire. Ci furono corsi di lingua. Molti i matrimoni, un centinaio le nascite all’Ospedale Civile. Il cibo veniva acquistato nei negozi cittadini. Qualche problema era sorto per il “taglio” della carne dal macellaio Bianchi di Abbiate, aiutato successivamente da un macellaio kasher venuto da Milano.
La permanenza ad Abbiate e a Tradate era dipesa dalla disponibilità delle navi. Qualcuno aveva trovato nel frattempo lavoro impiegatizio a Varese e a Milano, altri si erano addestrati nel parco Mayer a dissodare la terra, compito fondamentale una volta in Patria. I bambini d’estate erano stati mandati al Brinzio a respirare l’aria buona.
Aveva scritto anni fa Alberto Gagliardo in una pregevole ricerca che il lavoro della terra era diventato fra i reduci ambitissimo: “I terreni della famiglia Mayer erano diventati un vero e proprio kibbutz che venne chiamato “Torav’ Avoda” dalle parole ebraiche Torah (legge) e V’Avoda (lavoro). Un’attività che forniva prodotti vegetali e animali che contribuivano sensibilmente ad sostentamento di tutta la comunità”.
A ricordo della loro permanenza a Tradate e ad Abbiate Guazzone i profughi ebrei (tornati in delegazione in visita nel 1996) hanno voluto murare nella Villa Mayer, ormai cadente, una lapide con un’iscrizione bilingue: “In memoria di sei miloni di ebrei vittime del barbaro tedesco negli anni 1939-1945 il Kibuz Torav’ Avoda di Abbiate Guazzone questa lapide pose”.
Il ricordo non muore. Vivono intense le voci dei “sommersi e salvati”.
Sara Kazman, da Haifa, ha scritto: “Le rose viste in un giardino di Tradate furono per me il primo simbolo del ritorno alla vita dopo l’esperienza di Auschwitz”.
Ricorda Maria Modena Mayer, ex docente di letteratura ebraica alla “Statale” di Milano, nipote di Sally, figlia di Astorre, allora bimba di otto anni quando a Tradate c’era il kibbutz, il gran numero di nozze, la voglia di rinascere e di coltivare le proprie tradizioni, la speranza di una nuova vita, il desiderio di dissodare la terra con l’aiuto dei contadini del posto. Sposarsi era diventato il passaporto migliore per il prossimo domani nel calore della ritrovata famiglia.
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