Sessant’anni fa, di questi giorni, si svolse nella palestra delle elementari “Pascoli” di viale Ippodromo il torneo conclusivo della leva cestistica organizzata dall’Ignis. La prima d’una storia del basket gialloblù (ex biancorosso) iniziatasi molto prima nel tempo. Fu chiamato, a organizzarla, il professor Nicola Messina, genovese, poco noto, molto àlacre. Nell’autunno del ’62 si mise a raccogliere adesioni tra i ragazzi delle scuole cittadine, arruolando alla media “Dante”, senz’immaginare chi e cosa sarebbe diventato, un certo Dino Meneghin.
Seguirono mesi di toste lezioni/severi allenamenti alla “Pascoli”. Tre volte la settimana, più partitelle di sabato o la domenica. Infine, la serie d’incontri tra minisquadre di partecipanti al selettivo corso. Finale all’inizio d’un caldissimo maggio. Mazzolino di fiori, còlto nel giardino della scuola dalla custode signora Giuliani, al babycapitano dei vincitori. E tradizione giovanile che s’impiantò, progredì, diffuse passione/amore per questa meravigliosa disciplina. Affiancandosi a quanto di benemerito, nel settore, faceva da qualche anno la Robur et Fides di Gianni Asti, fenomenale allenatore-mito, noto anche per innestare compulsivamente la freccia ogni volta che sterzava col suo Maggiolino Volkswagen.
Racconto tanto poco allo scopo di testimoniare che la nostra cultura, la nostra identità, la nostra cifra di varesini/varesini è anche e specialmente marchiata dalla dedizione verso uno sport assai più d’uno sport. Senz’incorrere in scomuniche: una religione. E vale ricordarlo alla vigilia della partita che sarà un evento: la sfida di domenica prossima a Masnago contro Scafati significa, dopo la triste vicenda della maxipenalizzazione, evitare lo sprofondo in A2. Ciò che in un tale momento equivale a vincere lo scudetto. Un atipico scudetto. Sarebbe l’undicesimo, dopo i dieci -quelli veri- conquistati mettendo in fila dietro di sé l’intero nobilume della serie A.
Dunque il match, come spiega bene Claudio Piovanelli nella sua analisi tecnico-giudiziaria, è un appuntamento con la storia. E qui non c’è barriera che tenga. Non politica, non culturale, non sociale, non piripacchiosa. Qui si ritrova lo spirito unitario d’una città, peraltro rappresentata al meglio dai titolari di due istituzioni, Comune e Regione, che della religione pallacanestrara sono adepti da sempre. Galimberti e Fontana. Loro, i figli, gli amici. Un archetipo del modus vivendi bosino, o se volete del brand che ci contraddistingue/illustra nel mondo, o ancora (se vi piace) d’una civiltà -ma sì, civiltà- sportiva in cui Varese figura tra i modelli speciali. Esagerazione? Forse, boh, anzi sì. Come in ogni cimento agonistico degno di tal nome, e tuttavia senza pari nel richiamare armonia comunitaria. Emozione civica. Urbanesimo delle radici. Roba della quale c’è sempre più bisogno, e della quale fortunatamente disponiamo.
Un abbraccio a tutti, sperando d’alzare (rialzare) idealmente al cielo quel mazzolino dei fiori che la custode della “Pascoli” affettuosamente mise in mano al babycapitano dei vincitori, sessanta e rotti anni fa. Chissà che non succeda di nuovo, con ben altri fiori, su ben altro palcoscenico, immaginando ben altro trionfo. Open to meraviglia, come a sua insaputa propagandava la signora Giuliani prima della ministra Santanchè: aperti allo stupore gioioso.
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