La chiusura anticipata di un paio di mesi del programma Non è l’Arena di e con Massimo Giletti ha creato scalpore nel mondo dei media e del giornalismo. Il brizzolato conduttore è stato repentinamente abbattuto come un cavallo con la zampa rotta dopo la curva del Casato a Siena: di solito si sopprimono le trasmissioni che zoppicano negli ascolti, non quelle che fanno ottime audience per la rete che le trasmette e – soprattutto – fanno “brand”, rappresentano il marchio, fanno discutere anche oltre gli angusti confini aziendali, dettando i temi al dibattito pubblico.
Nel bene e nel male, che piaccia o che non piaccia, “Non è l’Arena” di Giletti è stato fin dall’inizio della sua avventura sul canale (poi diventato) di Urbano Cairo proprio questo: un marchio potente, strappato alla concorrenza RAI e fatto crescere in quella supposta zona franca senza padroni (e che invece ce l’ha, eccome!) che da sempre vuol far credere di essere La7.
Con uno stile sommamente divisivo, tribunizio, accattivante e populista, piacione e compiaciuto, Giletti ha fatto il bello e il cattivo tempo per anni, fino a questa fine improvvida e improvvisa, vergata sulla carta intestata dell’emittente che chiude con un enigmatico “il conduttore rimane a disposizione dell’azienda”. Lo vogliono punire? Lo vogliono riciclare? Vogliono semplicemente non regalarlo subito alla concorrenza? Una cosa è certa: di questi tempi sovranisti in Rai uno come Giletti se lo mangiano con gli occhi, non a caso si parla con insistenza di una striscia su Raitre, forse al posto di Fazio che ha fatto il suo tempo, anche dal punto di vista politico. Non a caso, il ministro Salvini ha dichiarato a botta calda: “Mi auguro di rivederlo presto in video”.
Ma cosa ha causato tale deflagrazione? È giallo. Molti osservatori l’hanno messa in relazione con i temi spinosi trattati negli ultimi tempi dal programma: dal conflitto russo-ucraino, con la controversa intervista alla portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, al tema della mafia, con particolare riferimento all’intervento di Salvatore Baiardo. Un caso, quest’ultimo, che secondo voci avrebbe fatto muovere persino la DIA, con perquisizione a casa del conduttore piemontese – prontamente smentite dall’interessato; il programma sarebbe finito sotto indagine dell’Antimafia di Firenze per le ospitate di Salvatore Baiardo, l’ex gelataio, pregiudicato per favoreggiamento, che anticipava di qualche mese l’arresto del boss Matteo Messina Denaro, latitante da 30 anni, operato nel gennaio scorso dai carabinieri del Ros e dalla procura di Palermo.
È circolata pure la notizia che sarebbe stato l’assai discusso Fabrizio Corona a vendere alla trasmissione, tramite un intermediario, compromettenti chat audio di Matteo Messina Denaro. Uno scoop giornalistico che ha sollevato tanti interrogativi deontologici e altrettante smentite da parte degli interessati, oltre che una nobile dichiarazione del buon Giletti: “L’unico rammarico è per i 35 che lavorano con me e si ritrovano ora sbattuti fuori dopo 6 anni. Io ho le spalle larghe, penso solo a loro”. Immediato è partito il cicaleccio sulla libertà di stampa in Italia, che con questo episodio sarebbe stata messa in discussione: e pensare che l’editto bulgaro che estromise Biagi dalla Rai risale al 2003, giusto vent’anni fa.
Ma è meglio mantenere calma e sangue freddo, perchè sono in tanti a pensare che in questa vicenda più che mai abbia ragione Stephen King, quando scriveva: “A volte ritornano”.
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