Si può tornare da una guerra da vincitori o da sconfitti. A volte non si ritorna proprio, e magari, nonostante qualche riconoscimento, croce o medaglia al merito, si risulta lo stesso vinti. Soprattutto umiliati. Oltre che persi per sempre, annullati nel dolore e nella morte non solo propria, ma anche di chi ti ha amato. E ti ha aspettato, per anni, col cuore gonfio di angoscia e paura.
“Avevamo diciott’anni e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro”.
E quanto è accaduto e continua ad accadere, ancora oggi: se sei dalla parte sbagliata, perché non hai potuto scegliere. O hai pensato di essere dalla parte del tuo Paese, e invece stavi dalla parte di un folle o di un tiranno.
Abbiamo l’esempio di quei giovanissimi russi arruolati a forza in una guerra ingiusta, mandati allo sbaraglio in un confronto fratricida, che li contrappone a volte agli stessi parenti.
Le generazioni dei nonni che hanno affrontato giovanissimi il secondo conflitto mondiale, e pensavano di difendere la propria patria, hanno subito a loro volta il rammarico della sconfitta e della umiliazione. Ma forse, ancor più, hanno pianto il sacrificio inutile dei compagni lasciati sul campo per una causa sbagliata. I figli di quei reduci – la generazione nata nell’immediato dopoguerra- ne hanno conosciuto i volti dalle fotografie di chi è tornato a casa.
Quanti sono, chi erano? Poco importano i numeri – ma questo erano diventati- ormai. Sicuramente troppi.
I loro nomi risuonano alti nel silenzio, nel tempo che tutto cancella. Ma, a volte, restituisce anche la memoria che sembrava perduta. Chi è di Varese sa quanti nomi stanno scritti in oro sul marmo dell’Arco Mera. Alcuni sono ancora vivi nei cuori dei varesini che transitano. E le loro foto sono conservate nelle case, nei ritratti approntati dai genitori o dai fratelli con amore, dopo la funesta notizia.
Sono nipote di uno di quei giovanissimi caduti, si chiamava Enrico, che mi hanno raccontato bravo e bello, giovane e coraggioso. È scritto anche nella motivazione che gli ha guadagnato la medaglia di bronzo e la croce al merito che era coraggioso e pronto a fare tutto il possibile per conquistare quel po’ di terreno che serviva a portare avanti i suoi soldati, ai quali voleva bene. Che fosse invece bello lo racconta il suo ritratto fotografico: il cappello di alpino messo un po’ di sghembo, la testa leggermente inclinata, lo sguardo morbido dei grandi occhi verdi. Ma tante altre foto di famiglia lo mostrano, giovane e spensierato, con il gatto bianco tra le braccia, o dopo la corsa in barca sul prediletto Lago Maggiore, i remi saldi sul petto. E che amasse la montagna lo dimostrano le stelle alpine che usava infilare tra le pagine dei vecchi volumi, custoditi nella biblioteca paterna. Lo dicevano le sorelle. E la prova infatti c’era e l’abbiamo vista. E toccata, sfiorando appena con le mani, non senza commozione, quegli esili petali vellutati, i gambi sottili ma resistenti agli anni.
Invece di rimanere a casa con gli anziani genitori, come avrebbe potuto fare, Chico, quello il nomignolo familiare, aveva deciso di partire per non essere da meno dei due fratelli, già chiamati alle armi. Aveva ventuno anni e la voglia di essere utile al suo Paese. La sua vita si chiuse due anni dopo sul monte Ursig, nel Montenegro, era il 26 aprile del 1943.
Il corpo rientrò in patria a fine guerra. Avvolto nella bandiera.
“Il silenzio fa sì che le immagini del passato non suscitino desideri ma tristezza, e una enorme, sconsolata malinconia”. Erich Maria Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale, 1928)
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