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Editoriale

SAPORE DI VERDE

MASSIMO LODI - 02/06/2012

Vogliamo più bene alle persone quando sono profilate da una linea d’ombra. Quando denunziano, sono costrette a denunziare, d’avere un limite. Quando la loro finitezza è esplicita, e la spunta sull’implicita tensione (tentazione) ad esser rifiutata. Vogliamo più bene alle persone che conoscevano la ricchezza, e incontrano la povertà. Che possedevano per esempio una bella casa, un bel negozio, una bella fabbrica, e gli è rimasto il nulla. E sono immeritevoli d’un ribaltamento inaspettato, ma il destino vuole che condividano la sorpresa (ma si tratta poi d’una sorpresa?) dell’angoscia. Della sofferenza. Del dolore. Che avvertano il sussulto della solitudine, oltre e avanti quello del suolo. Come a dire: ecco la realtà, lasciate (lasciamo) l’illusione.

Questo, prima d’ogni altro pensiero, c’ispira la tragedia della pianura padana crepata dallo scotimento della natura. Non è l’unica malinconia di stagione. Lo è la mestizia del Papa, piegato da una croce che non immaginava d’un tale peso, e capace di profilare una così lunga linea d’ombra dentro la Chiesa, fuori della Chiesa. Il Papa con gli occhi cerchiati, la parola flebile, il gesto faticato: un Papa che assume su di sé la responsabilità di chiarirne altre. Ma che è confortato da gesti come quello di don Ivan, il parroco di Rovereto sul Secchia morto per salvare dalla distruzione la statua della Madonna. La Chiesa vive di luci, non solo di ombre: c’è profilo e profilo.

La croce, essa sì, non ha un limite. Una piccola, grande storia che arriva dalle valli al di là del Lago Maggiore ne dà conferma: una pallavolista di successo, trent’anni, va a trascorrere qualche giorno di relax a Istanbul. Il giorno del rientro, anziché imbarcarsi sull’aereo prende un’auto, imbocca il ponte sul Bosforo. Poi si ferma, scende, vola di sotto. Nessuna storia difficile attorno a lei: solo pienezza di vita. Ma dentro, il vuoto. Leggero e greve insieme. Se lo sono portato via le onde, avvolgendolo tra le ombre che sfumano nella sera. Anche nella sera di un’esistenza.

L’ombra, la linea, il profilo imprevedibile del caso. C’è un gioco popolare al quale molti, quasi tutti, si appassionano. È il calcio. Esprime fisicità e talento, richiama passione e persino fede. La fede nell’ideale di squadra, nell’orgoglio d’identità. Il caso vuole (dispone) che la fiaba popolare ogni tanto diventi prosa del male: la frode sportiva, forse il peggio che vi possa essere. Un peccato di leso candore. La vittoria della cupidigia. Il trionfo dei miserandi. Quando attorno al mondo dei puri dello sport si profila questa linea d’ombra, vogliamo più bene ai tanti che vi appartengono. Non è il calcio da sospendere per due o tre anni, è da squalificare per sempre chi attenta ai valori che l’han reso qualcosa di diverso (di maggiore) da una competizione. Che ne han fatto una metafora della vita, con tutto il rispetto per le metafore e con la prudenza che si deve alla vita quando si decide di nominarla (sperabilmente non invano).

Che cosa ci rimarrà d’una doglianza così insistita e diffusa, di tanti profili di linee d’ombra? Il diritto al convincimento che i rovesci non l’avranno vinta. Che finiranno. Che in fondo sono un po’ come le spine del cactus: ti pungono e feriscono, e però se scavi e riscavi, alla fine trovi nel profondo della pianta l’acqua. Un’acqua che un poeta della California definì dal sapore di verde. Un verde che chiamò il colore del futuro. Ecco, in questo momento vorremmo essere dei poeti californiani, tingere l’orizzonte di verde, credere nel futuro. Vorremmo è un’espressione d’umiltà. Cioè una preghiera.

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