C’è una foto che non capivo tra i post di Facebook. È di Andrea Cherchi, un fotografo milanese innamorato della sua città, di cui ci fa scoprire aspetti non noti, angoli nascosti, realtà particolari. Ma quella foto non riuscivo a capirla, troppo piccola sul display del telefono: mi sembrava – ero forse condizionata dai pranzi pasquali – una pirofila con qualche leccornia al forno. Allora mi sono decisa a leggere il testo: “Premetto che per me, figlio adottivo, è davvero una grande emozione potervi raccontare questa storia”. Provo un brivido e guardo il titolo: Forza Enea. Una culla per la vita. E finalmente capisco, vergognandomi della mia prima impressione: è la culla termica che la clinica Mangiagalli mette a disposizione delle mamme che non possono prendersi cura del loro bambino, la culla dove, nel giorno di Pasqua, una mamma ha lasciato il suo piccolo.
L’ha accudito per otto giorni, poi l’ha lavato, l’ha vestito, gli ha dato un nome e una voce, una voce di carta: su un biglietto ha scritto “Ciao mi chiamo Enea. Sono nato in ospedale perché la mia mamma voleva essere sicura che era tutto ok e stare insieme il più possibile. La mamma mi ama ma non può occuparsi di me”.
Io, che non sono madre, credo di non poter capire fino in fondo il dolore della mamma di Enea, ma, quando ho osservato con attenzione la foto e ho letto la descrizione del funzionamento della culla, qualcosa mi si è strappato nel cuore pensando a lei.
All’esterno della clinica, in un piccolo vano poco visibile, al riparo da sguardi indiscreti, c’è una finestra chiusa da una tapparella, accanto un pulsante; la tapparella si alza scoprendo la piccola culla termica, lenzuola e cuscino stampati con allegre decorazioni. Dopo quaranta secondi – il tempo di un addio, di una carezza, di un ripensamento? – la tapparella si richiude e un allarme suona nel reparto di Neonatologia per segnalare ai medici la presenza di un neonato.
Ho provato, senza riuscirci, ad immedesimarmi nella mamma di Enea, al momento in cui la tapparella si è chiusa nascondendole – probabilmente per sempre – il suo bambino. Sarà scappata via? Si sarà nascosta per assicurarsi che i soccorsi fossero tempestivi? Poi mi sono detta che nella sua intimità nessuno ha il diritto di entrare, neppure per condividere la sua sofferenza e abbracciarla.
Invece mi hanno dato un po’di speranza le parole del prof. Fabio Mosca, direttore della neonatologia e della terapia intensiva neonatale: “…siamo noi che dobbiamo chiederci perché questa mamma si è sentita così abbandonata da fare un gesto così disperato. Deve sapere che qui lei troverà una porta aperta se volesse tornare sui suoi passi”
Mi piace pensare che questa storia possa avere un lieto fine, che i problemi della mamma di Enea siano solo economici e che la solidarietà umana possa aiutarla a riprendersi e crescere il suo bambino.
Ma, in ogni caso, lui saprà di essere stato amato non solo dalla sua mamma, ma anche da coloro che, prima ancora di conoscerlo, hanno voluto istituire, anche per lui, la “culla per la vita”.
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