Fu censuratissimo. Costretto a subire processi, sequestri e divieti di rappresentazione in un’Italia afflitta dai pregiudizi a cavallo tra gli anni ‘50 e ’60 del secolo scorso. Accusato di bestemmia contro la religione di Stato ai sensi dell’art. 724 del codice penale, reato poi prescritto. Ma in tribunale a Milano dove fu processato per Il Ponte della Ghisolfa (benché il libro fosse stampato a Varese da Feltrinelli) ci sono ancora le carte: “Una pagina non edificante di storia dell’editoria”, commenta Enzo Laforgia. Per ricordare Giovanni Testori a cent’anni dalla nascita e a trenta dalla morte, l’ateneo dell’Insubria ha organizzato Un pomeriggio dedicato al pittore, romanziere, drammaturgo, poeta e critico d’arte di Novate che rifiutò per tutta la vita, orgogliosamente, di replicare sé stesso: “Ebbe una precoce volontà di non rendersi qualificabile, non voleva sfruttare una produzione vendibile e redditizia”, spiega Andrea Spiriti.
Per l’occasione il presidente di Italia Nostra Varese Carlo Mazza, che conobbe Testori in gioventù (era il figlio del suo insegnante di latino al Collegio S. Carlo di Milano), ha donato all’ateneo – presente il rettore Angelo Tagliabue – il ritratto che, in base ai ricordi personali, Testori fece alla propria sorella Lucia nel 1941. Testori amava Varese, trascorse gli ultimi anni all’hotel Palace, vi frequentò Tavernari e Guttuso. A 21 anni era incuriosito dal cubismo e da Picasso, aveva contatti con Morlotti e Vedova ed era irresistibilmente attratto dal tema sacro. Viveva una religiosità drammatica e michelangiolesca, intrisa di spirito evangelico, attonita di fronte al dolore di Cristo.
All’epoca Testori è amico di David Maria Turoldo e attento alle avanguardie. Dipinge e vorrebbe rinnovare l’arte sacra. Nel ’45 illustra una raccolta di laudi di Jacopone da Todi e nel ’48, venticinquenne, è incaricato dai padri serviti della chiesa di S. Carlo di affrescare i pennacchi della cupola sopra l’altare con i Quattro Evangelisti. L’opera viene subito ricoperta perché “inconciliabile” con la decorazione della chiesa e Testori, ferito dal provvedimento censorio, si tiene lontano per vent’anni dai pennelli. Riprende a dipingere nel 1966 esprimendo una nuova forza cromatica con il ciclo delle teste mozze e l’urlo del Battista appena decapitato. Affronta il tema dell’amore, convinto come Pasolini che gli scandali siano necessari ed è attratto dalla noble art dei pugili in cui esplode il tema della omosessualità.
“È arte iperrealista – chiosa Spiriti – esprime la carnalità del reale”. Intanto racconta nei romanzi la nebbiosa e misera periferia industriale milanese negli anni del boom economico e scrive di teatro scontrandosi di nuovo con la censura. Il 24 febbraio 1961 il magistrato Carmelo Spagnuolo firma l’ordine di sequestro dell’Arialda e vieta di rappresentare lo spettacolo che offende “il comune senso del pudore”. È il clima dell’epoca. Ne fa le spese anche il film Rocco e i suoi fratelli di Visconti che si ispira a Il ponte della Ghisolfa di Testori.
Sono anni di teatro e di racconti. La Maria Brasca è presentata il 17 marzo 1960 al Piccolo di Milano, regia di Mario Missiroli, e con l’Arialda dà a Testori la notorietà. È un teatro di parola affidato alla performance attoriale che ha il compito di espanderla, di renderla protagonista. “Nel 1972 scrive l’Ambleto ambientato in una Lombardia arcaica e usa una lingua “inaudita”, che infrange tutte le regole, che esprime la corporeità della parola”, dice Gianmarco Gaspari. È sperimentazione linguistica che impasta il lombardo con i dialetti italiani e stranieri. Scrive il saggio Il ventre del teatro e la sua idea teatrale è religiosa, non laica come in Pasolini. Rimanda ad Antonin Artaud, al pot-pourri linguistico di Carlo Emilio Gadda, al Carlo Porta dialettale di Franco Parenti. Un teatro ipnotico – un feto che parla in Factum Est – che riecheggia nella lingua ibrida e sporca del coetaneo Dario Fo e in certo repertorio di Jannacci e dei Gufi.
C’è infine il Testori collezionista e mecenate dei musei, giornalista e critico d’arte, pupillo di Roberto Longhi, organizzatore di mostre, amante dei Sacri Monti per cui conia l’espressione Gran Teatro Montano, ammiratore della fisicità degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, scopritore dei maestri del colore del ‘600, di Tanzio da Varallo, di Francesco Cairo, di Giacomo Ceruti, del Nuvolone, del Cerano. Nel 1962 mette il marchio a Varese alla mostra su Morazzone e nell’83 a quella su Francesco Cairo. Predilige le opere che esprimono “la sofferenza dello spirito e il dolore fisico – spiega Laura Facchin – le immagini fosche e crude che rappresentano la vita reale”. Per Massimiliano Ferrario un tributo “allo splendore e alla miseria della carne”.
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