Sto seguendo con attenzione la problematica riguardante il Pronto Soccorso del nostro Ospedale di Circolo. Vuoi per aver recentemente vissuto un’esperienza drammatica relativa a un mio stretto familiare, vuoi per essere stata
dipendente per anni dell’Ente citato. Fa molto dispiacere quanto sta succedendo – ma direi da anni, nonostante le promesse! – al P.S., definito dai più, bolgia infernale. Condivido pienamente quanto scritto dal Prof. Minazzi, forse anche perché noi varesini abbiamo nostalgia dei vecchi tempi, quando il P.S. era organizzato diversamente.
Chi aveva necessità di ricovero veniva subito indirizzato nel Reparto di riferimento per la patologia manifestata. Ora in attesa di questo benedetto posto letto – anche il “bad manager” non ha il potere di moltiplicare i posti facendo miracoli, dato che sono stati molto ridotti! – qualunque persona di qualunque età è obbligata a “soggiornare” nella “barellaia”. È vero che il personale è molto stressato, soprattutto dopo il Covid, ma è altrettanto vero che a volte qualche cortesia in più non farebbe male, qualche risposta meno tagliente renderebbe il soggiorno citato più accettabile: il lato umano di ogni ricovero, sia in P.S. che in Reparto di degenza, favorisce anche il buon andamento clinico e la tranquillità dei parenti.
Magari un aggiornamento formativo per tutto il personale sanitario, anche dal punto di vista bioetico, in un comparto così delicato e a rischio, a mio giudizio sarebbe utile. Sempre forse ancora perché sono una nostalgica, ritengo di ringraziare i miei Maestri della Scuola pavese – di anni ne sono passati parecchi! – e i numerosi grandi Primari del nostro Ospedale che mi hanno insegnato che il malato non è una malattia, non è un numero e tanto meno un dato Istat, ma una persona con una sua storia, una sua dignità da rispettare, cui dare del “lei” e non quel gratuito e fastidioso “tu”. La persona va ascoltata pazientemente nei suoi bisogni primari –soprattutto se diversamente giovane – per esempio quando chiede semplicemente di essere esaudita per la sete protratta o manifesta insofferenza da interpretare clinicamente, non da coercire.
Ho imparato che non ci si atteggia mai in modo irrispettoso nei confronti di chi sta male, ricordando che nella stessa situazione “puoi trovarti anche tu” medico o infermiere, per cui gradiresti essere capito e ascoltato. La percezione del luogo dove si è degenti con i più svariati bisogni, porta a vedere l’Ospedale da un’altra prospettiva, diversa rispetto a ciò che la Dirigenza osserva. È sempre il discorso di provare a mettersi dall’altra parte, come scrisse l’oncologo Gianni Bonadonna.
Ho anche imparato che la diversità dell’interpretazione della patologia individuale fa sì che linee guida o protocolli che dir si voglia, devono essere applicati attraverso il ragionamento clinico e non “tout court”. Ho imparato molto altro, ma mi auguro, ripeto dopo un’esperienza recente esitata infaustamente e dopo quanto promesso come impegno di miglioramento, che possiamoguardare l’ingresso del P.S. e poi dei Reparti di degenza non con il terrore di vivere in un girone dantesco, ma in un Ospedale dove medici e infermieri possano lavorare serenamente.
Dott.ssa Anna Maria Bottelli (già medico ospedaliero)
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