La tv vive di età, di stagioni, di ere geologiche, decidete voi il termine: diciamo che ogni epoca ha una sua TV, in qualche modo specchio del gusto comune.
Così, in Italia si è vissuto il tempo della TV pedagogica, negli anni ’50, quella del maestro Manzi che insegnava ai telespettatori a leggere e a scrivere; poi alla fine dei ‘60 c’è stata la tv dei grandi sceneggiati, quella che adattava allo schermo senza timori i grandi classici della letteratura, dall’Odissea ai Fratelli Karamazov, poi è venuta la tv dei varietà, delle Mina e delle Carrà, poi la tv del dolore (da Chi l’ha visto in giù); negli anni ’90 è stata la volta della tv della politica-spettacolo, con il suo gran sacerdote Bruno Vespa che faceva cucinare il risotto o firmare contratti con gli italiani agli aspiranti premier.
Quella in cui siamo immersi oggi è certamente la “tv delle storie”: quella per cui ci vuole sempre un caso umano alla base del racconto televisivo. Ne sono pieni i talk, i tg, i programmi di soft-news ormai dilaganti: lo sfrattato col reddito di cittadinanza, la vecchina truffata dei risparmi, l’imprenditore che non trova operai, non c’è più alcun programma che sappia fare a meno di farcirsi di materiale umano che possa piangere, urlare, far commuovere il telespettatore. Una sorta di “droga” del palinsesto, di lievito madre della narrazione tv. L’emozione forte pare essere l’unico modo per vincere l’indifferenza del pubblico a casa. Persino uno dei generi che teoricamente meno avrebbe bisogno di lubrificare i propri meccanismi con casi di storie personali, come il quiz, in questi anni vive molte contaminazioni, basti pensare a quelli in cui devono partecipare squadre di concorrenti legate tra loro da parentele o amicizie tutte da raccontare.
Vale allora la pena segnalare un programmino che si impegna ostinatamente a prescindere dalla moda corrente, facendo leva solo sulla bontà del suo meccanismo: è Lingo, condotto nella fascia preserale da Caterina Balivo su La7.
Si tratta di un gioco basato sulla lingua italiana, figlio di un format internazionale vecchio di decenni e che debuttò sugli schermi italiani, con scarsa fortuna, nel preistorico 1992 e poi a varie riprese in anni successivi. Oggi il titolo è riproposto sulla rete di Cairo e non vuole altro che intrattenere sulla lingua italiana, tra sinonimi e contrari, forme desuete e anagrammi, tenendo come cuore centrale la vecchia idea – già da altri definita semplice e geniale – del “Paroliamo”. Gli ascolti sono in realtà microscopici, a quell’ora – tanto per dire – sul 5 c’è il circo umano di Bonolis e “Avanti un altro!” in pieno svolgimento, ma la Balivo non molla.
Quando del resto si dà precedenza alla solidità e all’efficacia di un meccanismo, senza puntare tutto sulla confezione e sull’emozione del momento, le cose durano di più: ne è prova – quasi un caso da studiare nelle facoltà di comunicazione – l’esperimento portato avanti ormai da anni da piccoli realtà locali come Telecampione e Telereporter, che hanno acquistato e ritrasmettono l’archivio dell’intrattenimento della Televisione Svizzera Italiana. È molto raro percepire che si tratti di programmi con qualche anno sulle spalle, (talvolta anche anni ’90!), gli esperti lo possono capire forse più dal taglio dei vestiti o dai caratteri grafici delle sigle che non dal contenuto, dalle domande poste ai concorrenti, dalle dinamiche di gioco.
Una tv insomma che bada all’essenza, all’intrattenimento puro e che rifugge dall’effetto che una nota conduttrice italiana – maestra del genere – definirebbe “ssssciòc!”.
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