Recentemente, all’Archivio di Stato di Firenze è stato trovato un documento che sta facendo traballare le certezze sull’italianità di Leonardo da Vinci, il nostro genio italico per eccellenza, il divino pittore e lo scienziato che tutti ci invidiano. Può sembrare singolare che, ancora oggi, vengano alla luce documenti sconosciuti di un passato lontano più di sei secoli fa, ma bisogna sapere che quell’immenso patrimonio di carte, gelosamente conservato in depositi nuovi di zecca, per la gran parte, ancora, non è stato dissodato a dovere e per questo, ogni tanto, emerge qualcosa di nuovo anche di epoche lontanissime. Uno studioso inglese, Richard A. Goldtwaite, che per ragioni professionali ha molto frequentato gli archivi della Penisola, qualche anno fa ha scritto che, anche in questo, possediamo un patrimonio unico al mondo, capace di illuminare un’infinità di storie, a cominciare da quelle della nascita del “capitalismo delle origini che vale per tutta Europa”, a partire dall’XI secolo in poi.
E così, da quell’immenso guazzabuglio di memoria collettiva che è un archivio, fatto di polverose carte incartapecorite, adesso è venuto alla luce un tratto della vita della madre di Leonardo, Caterina (conosciuta come Caterina del Vacca o Caterina di Piero Lippi), capace di illuminare un altro capitolo della storia del pittore più celebrato e aprire uno squarcio sulla vita sociale del suo tempo. Il documento, è stato rinvenuto da uno studioso italiano, Carolo Vecce che, per adesso, ne ha fatto un romanzo (ma probabilmente diventerà anche un film) dal titolo Il sorriso di Caterina (Giunti). È un atto notarile e porta la data del 2 novembre 1452. Con questo documento messer Piero da Vinci affranca la donna, Caterina, dalla condizione di schiava e di serva in cui si trovava “Filia Jacobi eius schlava sue serva de partibus Circassie”, sei mesi dopo la nascita di Leonardo (15 aprile). Caterina proveniva dalle regioni del nord-est del Caucaso (la Circassia, Čerkessia in russo) e ancora bambina ara stata costretta ad attraversare la Russia e raggiungere Costantinopoli; poi Venezia e quindi Firenze, portata lì da tale Donato, un commerciante di stoffe, che la darà «in prestito» a quel Piero da Vinci che abbiamo visto, per fare da balia al figlio. Da lei Piero avrà un figlio che si chiamerà Leonardo.
L’ipotesi che Caterina fosse di origini orientali era stata avanza già da qualche tempo. Adesso ce n’è la certezza. Ed è una storia uguale a quella di tante altre donne dei nostri giorni che, come quello di Caterina, si dipana tra viaggi impossibili, a servizio dell’uno e dell’altro. Una storia di gente che cerca di rincorrere la vita in tutti i modi, come quelli che han provato ad arrivare a Cutro e han fatto la fine che sappiamo. Una donna costretta, allora come adesso, ad una vita fatta di sofferenze, addii, con la solo fortuna di poter seguire il figlio e di morire tra le sue braccia, il 16 luglio 1493, durante il soggiorno a Milano, mentre era a servizio di Ludovico il Moro. È la storia tragica di una profuga, una persona costretta ad una vita raminga, fatta di sofferenze e questo ha indotto a credere che il sorriso trattenuto, misterioso e un po’ triste della Gioconda, non fosse altro che quello della madre. Non lo sapremo mai per certo, ma è una suggestione a cui fa piacere credere, perché sarebbe una sorta di riscatto magnifico per le sofferenze subite.
È una storia che dovrebbe farci riflettere, al di là dell’interesse storico critico che riveste. Le consunte carte d’archivio talvolta sanno essere taglienti più di un rasoio. E ci dicono con nettezza che il genio, chiunque esso sia, non è figlio di un territorio e non discende dall’identità di luogo. Discende da una civiltà fatta di differenze e di sofferenze. E non penso che dopo questa scoperta guarderemo a Leonardo maniera diversa da come l’abbiamo visto finora. Anzi. Probabilmente, incominceremo a guardarlo con più simpatia, con più ammirazione, con meno sacralità. Lo vedremo più umano. Oltre a tutto il resto, sarà anche il manifesto delle distorsioni provocate dal senso d’identità con cui siamo cresciuti, responsabile di tante nefandezze. Come giustamente è stato scritto, è da “questa morsa dell’identità che occorre strappare il concetto di cultura, perché non diventi qualcosa di antropologicamente abominevole, come il concetto di razza” (Remotti, 2011). La storia serve anche a questo, a capire il presente.
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