Un isolotto costruito dall’uomo nel Neolitico Antico (circa 5300 avanti Cristo), la cui origine si desume dai tipi di ceramica ritrovati tra i resti delle palafitte, dai materiali usati per realizzare i manufatti e le punte delle frecce. Così il medico comasco Innocenzo Regazzoni, studioso di storia naturale, scriveva dell’Isolino Virginia all’epoca dei suoi primi scavi archeologici tra il 1878 e il 1885. Con altri colleghi (Stoppani, Marinoni, Ranchet, Castelfranco, Quaglia ecc.), utilizzava un nuovo metodo scientifico per comprendere la vita delle comunità preistoriche, una visione interdisciplinare legata allo studio degli strati del terreno, della vegetazione e della fauna.
Le moderne tecniche d’indagine hanno confermato l’origine artificiale dell’isola scoprendo l’esistenza di piattaforme lignee fino ad oltre quattro metri di profondità e una massicciata subacquea di ciottoli e sassi in direzione della riva del lago. In sostanza l’Isolino ha assunto la sua forma attuale grazie al succedersi dei livelli di frequentazione umana, con gli impalcati lignei che al centro dell’isola si sovrappongono l’uno sull’altro e si appoggiano sui sedimenti lacustri saturi d’acqua, mentre sulle sponde le abitazioni furono costruite su pali. L’obiettivo era creare una comunità in mezzo all’acqua, al sicuro dalle variazioni del livello del lago.
Ne ha parlato la conservatrice archeologa dei Musei Civici di Varese, Barbara Cermesoni, in un’avvincente conferenza a Villa Mirabello. Innocenzo Regazzoni cominciò a scavare nelle stazioni palafitticole del bacino (Biandronno, Bodio, Cazzago, Galliate, Bardello, Besnate, Comabbio e Monate) grazie al mecenatismo dell’imprenditore tessile Andrea Ponti, proprietario del lago. E catalogò i reperti che per volontà dello stesso Ponti furono esposti al primo piano della villa padronale sull’Isolino Virginia. Nel Giornale della Società Storica Varesina nel 1886 Regazzoni cita due mascelle inferiori, una tibia, un radio ed un osso metatarsico, rinvenuti nello strato archeologico alla profondità di oltre un metro.
“Sono le sole spoglie umane finora apparse nel lago di Varese”, precisa lo studioso e di scaffale in scaffale descrive perline di vetro azzurro, vari arnesi di bronzo e una perla d’ambra, coltellini di ogni misura, aghi d’osso, pendagli ornamentali, amuleti, cuspidi di frecce e di lance, punteruoli, scalpelli, raschiatoi, mazzuoli, utensili di selce, vasi, olle, asce di pietra verde e, naturalmente, pezzi delle prime palafitte scoperte nel 1863 dall’abate Stoppani. L’Isolino Virginia è il sito palafitticolo dell’arco alpino di più antica frequentazione umana. Fu abitato per oltre 4 mila anni, dal Neolitico Antico alla fine dell’età del Bronzo, circa nel 900 A.C.
Possiamo immaginarcelo popolato nella fase iniziale dell’età del Rame, fra 3350 e 3100 anni fa, da esseri in tutto e per tutto simili a Ötzi, l’uomo di Similaun, la mummia ritrovata nel 1991 in Val Senales e conservata al museo archeologico dell’Alto Adige a Bolzano. Un maschio adulto, alto 160 cm che al momento della morte doveva avere all’incirca 46 anni. Un’età ragguardevole per l’epoca. L’uomo venuto dal ghiaccio, come fu definito, aveva problemi ai polmoni, anneriti dalla fuliggine delle capanne e per avere respirato l’aria della lavorazione dei minerali di rame.
Soffriva di artrosi e di artrite, i denti rovinati a furia di masticare farina di cereali impastati con la sabbia, fibre vegetali, pelle e tendini. Fu ucciso da una freccia che lo colpì alla spalla, penetrò nella scapola e ne provocò il dissanguamento. In base alle date, e soltanto a quelle, possiamo immaginare il contemporaneo Ötzi tra gli abitanti delle palafitte dell’Isolino sul lago di Varese, patrimonio Unesco e luogo del cuore. “Qui il terreno era più facile da lavorare – spiega Cermesoni – le comunità non conoscevano ancora l’aratro, usavano l’ascia di pietra e la scapola di cervo come zappa, dentro villaggi costruiti sui pali che l’acqua ha protetto per secoli”.
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