Saranno complici le noti di “Se telefonando”, recentemente riecheggiate per omaggiare Maurizio Costanzo, se il nostro pensiero corre al lontano 10 marzo 1876, giorno in cui l’inventore Alexander Graham Bell effettuò la prima telefonata ufficiale al suo collaboratore che si trovava nella stanza accanto? Questa data non deve comunque farci dimenticare i veri precursori del telefono: il valdostano Innocenzo Manzetti e, soprattutto, Antonio Meucci.
Il geniale fiorentino fu riconosciuto soltanto nel 2002 dal Congresso Americano come effettivo inventore del telefono, che lui chiamava il telegrafo parlante o telettrofono. Ma si sa che la storia è costellata di ingiustizie e di riconoscimenti tardivi.
Quel 10 marzo di quasi centocinquanta anni ci trascina, piaccia o no, in un vortice di pensieri, di riflessioni, di ricordi e di associazioni informative. Il telefono – termine coniato prima in francese, poi anglicizzato – fu una grande rivoluzione per la comunicazione. Ma forse la consideriamo come spesso accade quasi scontata. Questo è il punto su cui ragionare. In fondo tracciare la storia del telefono, o di quanto associabile, offre l’opportunità per riflettere su ciò che diamo per scontato.
Un esempio è l’atto unico del 1947 “Il Telefono”, con musiche del compositore Gian Carlo Menotti, nato a Cadegliano con Viconago nel 1911, e rappresentato il 3 marzo al Teatro Nuovo di Varese nell’ambito del festival dedicato al compositore. L’opera – opera comica per la precisione – incentrata sul rapporto di una coppia, Ben e Lucy, in cui lei ha l’ossessione del telefono, ci invita a pensare alla nostra dipendenza nei confronti del cellulare, evoluzione tecnologica dello strumento inventato nel 1800. Addirittura hanno coniato il termine nonomafobia per chi è angosciato dal fatto di non essere connesso con il telefonino, smartphone o natel secondo la terminologia svizzera.
In ogni caso vogliamo e dobbiamo ricordare quello che ci ha dato il telefono negli anni: quello rosso, anche se era una linea di collegamento e non l’oggetto, tra Washington e Mosca, quello azzurro per difendere i diritti dell’infanzia e quello rosa che dal 1988 è a fianco delle donne (e non solo l’8 marzo). E perché non pensare anche al sorriso regalato negli anni Trenta e Quaranta dai sogni espressi nei film con i telefoni bianchi?
C’è una battuta che circola sui social: quante cose ha perso chi non ha sentito il rumore della rotellina del telefono quando il dito faceva il numero per chiamare. La storia non è solo perdita e non può mai essere nostalgia. Certo abbiamo perso anche quel bell’inizio di telefonata: Pronto, chi parla? Espressione ereditata dalle centraliniste (professione quasi dimenticata dai più) per dire che il collegamento interurbano era pronto. Adesso a che cosa siamo pronti?
Ognuno di noi avrà la sua risposta. Ma il nostro pensiero corre al “telefono del vento” della città giapponese di Otsuchi. Sappiamo che quel telefono non è altro che un monumento che rappresenta una cabina telefonica, aperta al pubblico dopo il violento terremoto e maremoto dell’11 marzo 2011, con un telefono scollegato. I visitatori vi entrano per scrivere messaggi che immaginano che potranno essere letti dai defunti. Un toccante bisogno di comunicare con chi é lontano e definitivamente assente. O semplicemente il bisogno di mettersi in relazione con qualcuno.
You must be logged in to post a comment Login