La scomparsa di Maurizio Costanzo ha scosso l’albero della televisione facendo crollare a terra i frutti più maturi, quelle decine e decine di personaggi che attraverso i suoi programmi – ma particolarmente il Maurizio Costanzo Show, in palinsesto con rare pause dal preistorico 1982 – hanno trovato via via ragion d’essere, rampa di lancio o paracadute di carriere in disarmo. Tutti loro sono stati in questi giorni riuniti intorno alla memoria del Mentore, piangenti, disperati, insomma: orfani. Si badi: in tv non è facile avere lo status di Padri Nobili, ognuno si sente un po’ padre di stesso e quasi tutti si sentono padreterni. Del resto, spesso i meriti si sovrappongono ai demeriti in dipendenza dai punti di vista, a seconda che per esempio Sgarbi lo si reputi un genio della critica dell’Arte o un attaccabrighe catodico, o che Pierluigi Diaco lo si apprezzi come il giovane che mancava o un insopportabile saputello, per dire di due sue creature.
Certo è che Costanzo ha monopolizzato per anni la televisione italiana (ma non solo, anche le radio e le rubriche di giornali), con i programmi da lui ideati, coi cascami dei suoi insegnamenti, i faccioni da lui creati, con i famigli (leggi: De Filippi) che hanno colonizzato terre impensate, e anche con il suo augusto sembiante, se pensiamo che – caso più unico che raro – il giornalista romano ha potuto negli ultimi anni imperversare contemporaneamente e continuativamente su Rai e Mediaset. Un privilegio riservato praticamente solo a lui e un paradosso che si è concretizzato plasticamente il giorno delle esequie, quando si è vista tutta la crème televisiva della tv pubblica e privata, dirigenti e star, riunita gomito a gomito nella chiesa degli Artisti in Roma; il tutto, si osservi, davanti alle telecamere Rai, che poi ha ceduto il segnale a Mediaset, di cui il caro estinto è stato, negli ultimi quarant’anni, uno dei massimi alfieri. Insomma, un unico, enorme pastone tv.
Dell’Uomo si ricorda giustamente la genialità, la curiosità, la generosità, e passano in secondo piano attitudini indispensabili per far strada e rimanere in certi ambienti, come quella che si definisce in tv “la performanza”. Se hai qualcosa da dire, dimmelo in trenta secondi, sennò mi annoi, sei fuori; è la logica del telecomando, del racconto usa-e-getta perfetto per la tv, per questa tv. E Costanzo è stato maestro di tv. Di lui molto si è detto delle grandi interviste realizzate, del suo personale, esemplare impegno contro la mafia che ha non a caso cercato di farlo saltare per aria, nel 1993 in via Fauro; molto si è detto del suo istinto formidabile a entrare in sintonia col pubblico, magari con una semplice trovata, lessicale o scenografica.
Chi non ricorda le imposte che apriva e chiudeva all’inizio e alla fine di “Bontà Loro”, il suo talk seminale trasmesso dalla Rai alla fine dei ’70? E che dire del filosofico quesito “Cosa c’è dietro l’angolo?”, che immancabilmente rivolgeva agli ospiti di “Acquario”? Ieri erano trovate geniali, oggi sappiamo che erano precisi elementi di format, quando ancora non era codificato il concetto di format, trovate narrative caratteristiche che sono state capaci di condizionare decine di programmi epigoni: pensiamo alla tv dei tormentoni degli ultimi anni o alla porta di Stranamore, alla busta che si apre di “C’è posta per te” e via discorrendo…
Costanzo un grande uomo di televisione, insomma: certo la televisione non è il mondo dei sogni.
E a proposito di mostri sacri, da questa settimana Bruno Vespa guadagna uno strapuntino prezioso quanto il palco reale alla Scala il giorno della prima: parliamo del debutto della sua nuova rubrica quotidiana in onda su RaiUno subito dopo il TG delle 20. Quella fascia di grande visibilità che fu sublimata da “Il Fatto” di Enzo Biagi (in onda dal ’95 al 2002, e poi cassato da Berlusconi col famoso editto bulgaro) passa dunque al conduttore di Porta a Porta e ai suoi “Cinque Minuti”. Approfondimento di attualità a tutto campo, con ritmo, velocità (ricordate la “performanza” di cui sopra?) peraltro messo in concorrenza con l’analogo programma condotto più o meno alla stessa ora sulla terza rete da Marco DaMilano “Il cavallo e la torre”. Destra e sinistra, un colpo al cerchio e uno alla botte: insomma, la Rai fa come quei pivelli al casinò per la prima volta che puntano alla roulette sia sul rosso che sul nero, in modo da credere di vincere sempre. E intanto perdono. Speriamo che a perdere (la pazienza) non arrivino anche gli spettatori…
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