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Il racconto

IL COMPAGNO GRANDE

GIOVANNA DE LUCA - 17/02/2023

panchinaSi lasciò cadere su una panchina, esausto.

La scuola era lontana, la casa pure. Il primo pomeriggio rendeva le strade deserte e questo gli dava un senso di sicurezza, nessuno poteva fargli male.

Ora riandava agli eventi di quella mattina di scuola e di rissa, di cui portava i segni: il naso dolente, ammaccature dappertutto, i jeans strappati da un lato. Aveva quindici anni, era gracile e piccolo di statura. Frequentava, a causa di una ripetenza, la terza media.

Aveva quell’anno cambiato sezione, sperando in migliori compagni, che non lo prendessero in giro per la sua aria timida e vagamente spaurita. Non gli era andata male, ma ancora una volta si era sentito solo, diverso. Lo aveva colpito un ragazzo alto e ben piantato, con un gran ciuffo sul capo, volutamente sdrucito negli abiti e con l’espressione di chi sa farsi rispettare ed è sempre sicuro di sé. Non si sa come questo compagno aveva preso a proteggerlo, non lo sfotteva, gli faceva solo capire che aveva l’aria da sfigato, che avrebbe dovuto agire, fare qualcosa che lo mettesse in vista, e farsi considerare. A lui non aveva detto in quali condizioni familiari viveva: un padre dal lavoro precario e mal remunerato, una madre sempre triste e un fratello minore handicappato. Questo era il punto. Se ne vergognava.

In più il suo aiuto nel gestirlo era diventato fondamentale: la madre assai spesso non ce la faceva da sola, se il padre era fuori, e toccava a lui aiutarla a lavarlo, cambiarlo e metterlo in carrozzina. Da questi aiuti usciva umiliato, anche disgustato, e si chiudeva in se stesso. Il padre certi giorni aveva la faccia scura e non parlava. Sua madre talvolta piangeva di nascosto. E comunque, se qualche tenerezza aveva, era per l’altro figlio, non per lui. Lui non ne aveva bisogno. Lui era sano.

Il compagno protettivo, che di anni ne aveva sedici e due ripetenze alle spalle, aveva una ragazza e gliene parlava, gli raccontava particolari che un po’ gli piacevano e un po’ lo imbarazzavano e comunque più che mai lo facevano sentire “sfigato”. Per tutto l’anno i due ragazzi erano stati indivisibili a scuola, fino a quella mattina, quando tutto era cominciato all’uscita, sul piazzale antistante. Un gruppetto di ragazzi coetanei li aveva raggiunti ed alcuni, certo amici del compagno grande, si erano messi a scherzare con lui, tra parolacce e spintoni.

A un certo punto videro arrivare un ragazzino. Era solo. Nel gruppetto, quasi si fossero accordati, si scambiarono sguardi d’intesa, cui il compagno grande partecipò. Poi, d’un colpo, furono addosso al malcapitato. Lo pestavano e minacciavano, volevano cellulare, orologio, piumino e i soldi che poteva avere. E il compagno grande li incitava, lo sbeffeggiava con gli altri, finché gridò al nostro: «Buttati cretino, sfigato di m…, vigliacco, fai qualcosa anche tu, tira fuori le p…, se le hai!».

Allora qualcosa gli era scattato dentro: si era buttato nella mischia e si era messo a colpire, a colpire. Alzando nel movimento lo sguardo aveva visto il compagno guardare e ridere, ridere come fosse al cinema.

Si era liberato sgomitando. Si era messo a correre via, a perdifiato, per strade e vicoli, il più lontano possibile. E adesso era lì, buttato sulla panchina, stravolto. Era tardi. Si avviò verso casa. E gli bruciava dentro soprattutto un fatto: l’amico, la guida, il suo unico sostegno lo aveva spinto alla violenza. Aveva creduto di diventare più grande con il suo aiuto, più uomo. Aveva pensato che avrebbe meglio sopportato la vita di famiglia e che qualcuno lo avrebbe benvoluto. Si sentiva tradito. Arrivato a casa salì lentamente le scale, desideroso ancor meno del solito di entrarvi.

Sentì il rumore della carrozzina che si avvicinava. La porta si aprì e suo fratello lo salutò con gioia, con i grandi occhi azzurri e il suo sorriso sghembo.

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