È tipico di allenatori, presidenti, di quanti, insomma, per un verso o per l’altro, seguono le sorti di una squadra, o con panorama più ampio, di una società aver a cuore, almeno nelle intenzioni, insieme alle ambizioni prettamente tecniche, l’obbiettivo preciso di fare di tutto l’assetto societario “una famiglia”.
La parola è impegnativa e non sempre il fine, apprezzabilissimo, trova, nella pratica, concreta attuazione. Piccole (o non tanto) invidie, frizioni, elementi caratteriali in genere non necessitano di risse o di particolari risentimenti perché l’unità collettiva vada, graziosamente, alla malora con graduale – se non immediato – accantonamento dell’idilliaco tentativo.
Eppure se lo scopo continua ad essere perseguito significa che, alla base di ogni progetto-famiglia, esistono degli accertati ritorni in punto di benefici. E la cosa è empiricamente provata.
Quale poi sia la molla che dà la spinta è discretamente difficile accertare: se, cioè, i risultati positivi sul campo facilitano l’armonia o se non sia l’armonia a facilitare la soluzione del problema. Un po’ la storia dell’uovo e della gallina, insomma.
Resta il fatto assodato che anche lo sport subisce riflessi, positivi o negativi da un collegamento – o meno – in fatto di affetti, emozioni, situazioni, insomma, tipiche dell’ambiente famigliare in senso stretto.
Non v’è dubbio che i magnifici risultati ottenuti nel basket dalla Ignis furono conseguenza dei rapporti d’amicizia esistenti tra i giocatori, rapporti che Giovanni Borghi ed i suoi collaboratori tecnici e organizzatori ebbero, sempre, cura di mantenere vivi, in maniera quasi ossessiva prestando un’attenzione all’armonia di gruppo accreditata di un interesse se non superiore certamente non inferiore a quello tecnico.
E in prima persona a guidare la regìa era proprio il “cumenda” con quei suoi raduni frequentissimi per fare gruppo, aperte non solo, riservati agli atleti (si trattasse di basket, pugilato, ciclismo o quant’altro) ma anche ai famigliari.
Era un’idea fissa questa di Borghi tanta era la sua convinzione che un ambiente familiare avrebbe potuto avere solo riscontri positivi nei fatti e nei rapporti generali. Un’idea certamente nata più dallo splendido concetto di amicizia dell’individuo che non da, pur esistenti ma certamente subordinate, convinzioni di maggiori risultati.
E che poi da queste situazioni possano nascere campioni dallo stesso cognome (Ossola, Gergati, Meneghin, Rodà, Bulgheroni, Bosetti, Garbosi e via a seguire) non pare proprio sia fattore casuale. Soprattutto quando anche in “famiglia” lo sport venga tenuto nella debita considerazione ma con piena consapevolezza della sua funzione.
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