La famiglia alpina è una grande, vecchia famiglia, ufficialmente formatasi nel 1872 con quindici compagnie e una dote consistente in una carretta per ogni compagnia e un mulo da basto e tiro; tutti i componenti della famiglia come segno identificativo avevano un cappello rigido, nero con una penna di corvo verticale, che al momento del quarantesimo compleanno, nel 1912, fu sostituito con il notissimo cappello grigio-verde su cui ancora oggi si pone una penna nera che diventa bianca per chi, distinguendosi per l’avanzata età e parimenti per saggezza e valore sino a divenire generale, diventa bianca. All’inizio la famiglia aveva adottato il motto: “Di qui non si passa” che si unì poi ad altri, più o meno noti, che tutti lasciano trasparire il comune Dna alpino: “In montagna non c’è fango”, molto attuale, “Per gli Alpini non esiste l’impossibile”, in guerra e in pace, “Uniti sotto la naja, uniti dopo la naja”, indice dell’indissolubile appartenenza al corpo alpino e “Onorare i caduti aiutando i vivi” che riassume tutto il programma delle molteplici attività in cui gli Alpini in armi e in congedo sono impegnati.
Quando non sanno più a che santo votarsi in famiglia si rivolgono a San Maurizio, comandante delle legioni montanare romane nel III secolo dopo Cristo (ndr San Maurizio è nato in Libia), alcuni poi si rivolgono anche a San Camillo e a San Cristoforo, agli arcangeli Gabriele e Michele, gli Artiglieri invocano Santa Barbara e i medici San Camillo; dal 2010 hanno anche sugli altari un alpino santo, il beato Don Carlo Gnocchi.
Nel 1887 la famiglia, ormai cresciuta, affronta i suoi impegni militari: viene mandata a combattere in Eritrea, poi ad Adua e via via partecipa a tutti gli eventi bellici che vedono impegnata l’Italia, sino al più drammatico, la prima guerra mondiale. È in questi lunghi anni di duro servizio alla Patria, di sacrificio, di inumano coraggio di desolante immolazione di giovani vite che si consolida quel senso di “alpinità” che accompagnerà negli anni futuri tutti coloro che indosseranno il cappello.
Dopo la desolazione della Grande Guerra i sopravvissuti si interrogano su cosa fare per tanti orfani per tante vedove per tante mamme private del sostentamento dei figli; lo stato italiano era prosciugato dalle spese di guerra e in quell’epoca non esistevano forme assistenzialistiche, cui oggi siamo abituati e ci sembrano naturali e dovute, come il sistema pensionistico o il servizio sanitario; perciò il grande cuore degli alpini decide di dare vita a una associazione che si sarebbe occupata di aiutare le famiglie dei commilitoni che non erano “tornati a baita” o erano tornati mutilati invalidi inabili al lavoro. Gli ex-combattenti cominciarono a re-incontrarsi in piccoli gruppi a livello locale seguendo la territorialità della leva, per aiutare i familiari di quelli che “erano andati avanti” o che erano rimasti in difficoltà. Poi trovarono che rimanere in cordata era davvero bello e una volta superata l’emergenza post-bellica decisero che si poteva restare uniti magari per affrontare altre emergenze, mettendo in pratica quello che durante la vita militare avevano imparato: i valori dello spirito alpino, la sopportazione della fatica, la collaborazione in un reciproco sostegno. Sono valori solo apparentemente semplici ma fondamentali e regolarmente applicati in ogni gesto quotidiano – come scriveva con ammirazione Montanelli –, che fanno “diventare normale un comportamento eccezionale”.
Gli alpini hanno saputo e voluto dedicarsi al prossimo perché hanno imparato molto durante la naja: l’asprezza della vita in montagna, che tempera l’uomo alla fatica e che insegna a misurare le forze e a chiedere aiuto senza false prove di coraggio individualistico. La forza è nella collaborazione, come dice il motto del battaglione Ivrea “Tùcc ùn,” ed è dalla precisa volontà di collaborazione che con loro è nata la protezione civile, all’indomani della tragedia del Friuli nel 1976. A quel tempo la macchina dello Stato prevedeva l’impiego dei militari di leva nelle calamità naturali, insieme a Polizia e Carabinieri, ma la macchina dello Stato, per quanto celere, ha le sue lentezze burocratiche, gli Alpini no; proprio come qualche giorno fa, quando appena giunta la notizia del sisma in Emilia, alle 5 del mattino erano già in movimento. Così è stato in ogni emergenza, sempre con mezzi propri, sempre senza pesare economicamente su alcuno, sempre visibili coll’inseparabile cappello così dopo il terremoto in Friuli, in Irpinia, in Umbria e in Abruzzo, dopo la frana del Vajont, l’alluvione in Valtellina, in val di Stava, in Val d’Aosta, in Piemonte, Lombardia, Toscana, Cinque Terre, Lunigiana, Genova.
Ma non ci sono solo le emergenze: molte sono le attività in cui gli Alpini, silenziosamente, senza mettersi in mostra per ottenere plausi e riconoscimenti, come la montagna ha insegnato loro, senza clamori, offrono il loro impegno di particolare valore morale: collaborano col Banco alimentare, con l’AIL, con il Kiwanis club nel Progetto Pedibus, col Villaggio SOS di Casciago e con la Sacra Famiglia di Vedano.
Uno dei motti degli Alpini è “Per non dimenticare” e così i vivi ricordano e onorano coloro grazie al cui sacrificio e alla cui tenacia dobbiamo l’unità del nostro Paese, ripristinando camminamenti, gallerie trincee e rifugi d’alta quota scavati nella roccia, intitolando ai Caduti le postazioni recuperate e poiché amano la montagna e la natura, spengono incendi, puliscono i boschi e i sentieri in montagna, riassettano i torrenti e i corsi d’acqua. Poi ci sono le attività di pace in Paesi che sono stati teatro di guerra o di calamità naturali: la chiesa di Korenica in Croazia, il centro sociale a Mostar, l’asilo a Rossoch. Ogni anno pubblicano il Libro verde della solidarietà che elenca tutte le attività compiute: nel 2011 sono state effettuate 1.742.508 ore di lavoro volontario, regalate dagli alpini, cui si assommano 5.028.914,74 euro raccolti in attività varie per essere distribuite in beneficenza, per un totale, contabilizzato secondo la prassi anglosassone che attribuisce un valore economico al tempo “regalato”, di 52.984.624 euro: una straordinaria cifra consuntiva se si pensa che il denaro viene raccolto nel corso dell’anno attraverso spettacoli, feste, collette, e a qualche elargizione di enti e di privati.
Il senso del dovere e della solidarietà si unisce a una costante cordialità, che rende capaci di alternare momenti di festa al lavoro. Si mangia, si beve, si canta: ma solo dopo: cioè dopo aver lavorato, dopo aver donato tempo e lavoro a chi è nel bisogno, dopo aver soccorso chi è in pericolo.
I momenti di festa in famiglia sono numerosi perché ogni gruppo locale festeggia il suo compleanno che coincide con l”anno della sua fondazione: quasi tutti i gruppi sono stato costituiti all’indomani della Prima guerra mondiale, oltre ottant’anni fa, in un’epoca davvero difficile, ma dopo aver dato risposta all’emergenza, i gruppi e le sezioni continuarono a esistere, anzi, se ne aggiunsero altri; oggi in provincia di Varese ogni paese ha il suo gruppo con la sua festa di fondazione; sono davvero molte nel corso dell’anno e costituiscono un momento di ritrovo che serve a ritrovare – ove ve ne fosse bisogno – coesione e solidarietà perché anche facendo festa si pensa agli altri e il denaro raccolto con la vendita di polenta, costine e salsicce serve a finanziare progetti di aiuto, magari in terre lontane: un collegio, una chiesa, un ospedale, un istituto per bambini orfani o per malati: gli alpini lasciano segni tangibili di pace in Laos, in Mozambico, in Costa d’Avorio, nello Sri Lanka sconvolto dal disastroso tsunami…
Come in ogni famiglia si fanno lavoretti di bricolage, così anche gli alpini fanno i muratori, gli elettricisti, i piastrellisti, i giardinieri: per Luca Barisonzi, l’alpino ferito in Afghanistan, hanno costruito una casa domotica in cui possa vivere dignitosamente.
In famiglia si pratica anche lo sport e si organizzano gare come la corsa individuale in montagna e la corsa in montagna a staffetta, la marcia di regolarità in montagna, le gare di sci, di tiro a segno, di biathlon…
Poi ci sono i canti, in famiglia. Il canto è un momento aggregante, quando si va in montagna capita di trovarsi in un rifugio seduti accanto a sconosciuti compagni di ascensione e di trovarsi a cantare come se ci si conoscesse da sempre; gli alpini hanno imparato a cantare durante la leva e hanno trasmesso il Dna della musica a mogli figli amici: ed ecco i cori che emozionano gli ascoltatori proponendo canti che hanno accompagnato i soldati nelle lunghe ore della naja e della guerra, che raccontano le tragedie vissute ‘Bombardano Cortina’ ‘Sul ponte di Perati’ ‘La tradotta’ ‘Monte Canino’ ‘La leggenda del Piave’ ‘Il testamento del Capitano’… e poi canti legati alla montagna da ‘Quel mazzolin di fiori’ a ‘La villanella’ a ‘Lassù sulle montagne’… Il loro inno che li vede tutti in piedi è ‘Valore alpino’ il cosiddetto ‘Trentatré’.
Un’altra cosa che la famiglia alpina ha nel suo Dna è il senso della storia: la vita è un sentiero lungo il quale i “bocia” camminano sino a che diventano “veci” . I “veci” sono considerati un bene prezioso, non un peso: per loro c’è sempre il tenero riguardo che si prova per chi sta lentamente sfiorendo, perdendo le energie che aveva da “bocia”; per loro, chiamati familiarmente i “sempreverdi”, quasi sempre impossibilitati a partecipare al compleanno per eccellenza degli Alpini, la mitica Adunata nazionale – dodici ore di sfilata ininterrotta tra il corale applauso degli Italiani – viene organizzata una festa il sabato precedente all’Adunata per ringraziarli della loro presenza e partecipazione negli anni della floridezza.
Un’altra caratteristica degli alpini è che non muoiono mai: loro semplicemente “vanno avanti nel Paradiso di Cantore” che è già affollato di tanti veci ma anche di bocia che hanno perso la vita combattendo nelle guerre per costruire l’Italia, nei lunghi anni dei conflitti mondiali 1915-18 e 1940-1945: sull’Ortigara, il cimitero degli alpini, sull’Adamello, sul Monte Grappa, sulle Tofane, a Garian, a Mai Ceu, ad Amba Aradan, a Podgorizza, a Nowo Postolajowka, a Nikolajewka. E per i veci andati avanti c’è un ricordo speciale il 2 novembre: su ogni tomba spunta un fiore portato dai bocia.
Se le famiglie si fondano su valori come la dedizione, la trasparenza, la fedeltà alla parola data, la collaborazione, la solidarietà, l’abnegazione, il rispetto per i deboli, bambini e anziani in primis, gli Alpini sono senz’altro una famiglia; basta frequentarli per mezz’ora per sentirsi a proprio agio: trasmettono l’amore per la montagna, per la propria gente, per gli altri, in silenzio, con la modestia tipica della gente di montagna, trasmettono i valori che i nostri Padri ci hanno trasmesso, il senso del dovere, il rispetto per le istituzioni, l’amore per la famiglia e per l’ambiente.
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