Adesso tutti, anche ad Umizza, parlavano delle foibe e dei loro inghiottitoi di pietra, lungo i quali era impossibile risalire. Quanti erano i corpi gettati nelle foibe? Non lo si sapeva. Non lo si sarebbe saputo mai. Il potere diceva che le foibe erano un’invenzione degli avversari.
Queste parole, drammatiche nella loro essenzialità, si possono leggere nel penultimo capitolo del romanzo La foiba grande, scritto da Carlo Sgorlon nel 1992. La data è importante. L’anno prima il Presidente Francesco Cossiga, precisamente il 3 novembre, aveva reso omaggio alla foiba di Basovizza. Un omaggio ma anche una tardiva ammissione del lunghissimo silenzio su una terribile pagina di storia, quello che ormai tutti chiamano il massacro delle foibe. Iniziò ottant’anni fa, nel 1943, e terminò nel 1945.
Umizza, il paese in cui è ambientata la cruda vicenda narrata dallo scrittore friuliano, non esiste ed è un nome inventato, ma Basovizza, Basoviza in dialetto triestino, ora noto per importanti centri di ricerca, è da ricordare perché nella foiba vennero occultati e fatti morire un numero imprecisato di persone. Ha ragione Sgorlon, il numero di quel genocidio ideologico rimane ancora sconosciuto. E lo rimarrà.
Non sono mancate negli anni definizioni di quanto successe in Istria e in Dalmazia. Basta rileggere i titoli dei giornali. Alcuni esempi da Il Corriere della Sera che nel 1996 parla di “Tragedia del totalitarismo”, nel 1998 “Anche i manuali di storia si devono aggiornare”. All’orrore delle foibe si è, infatti, aggiunto un colpevole silenzio di anni. Eppure si sapeva. Non si può dimenticare come Alcide De Gasperi sollecitò già dal maggio del 1945 gli Alleati circa il problema delle uccisioni e delle torture. Ma per anni ci fu, ormai è riconosciuto, un vero e proprio silenzio di Stato, come egregiamente ricostruito in un articolo, che vale sempre la pena di rileggere, pubblicato nel 2004 su “La civiltà Cattolica”
Era l’anno in cui una Legge ha dichiarato dichiarato, dopo un difficile iter per l’approvazione, il 10 febbraio, “Giorno del ricordo”. Il ricordo dell’oblio, come recita con efficacia un titolo del 2015 de Il Corriere della Sera. Ripercorrere, senza interpretazioni inquinate, non tanto da ideologia ma da ideologismo, le motivazioni politiche di tale “infoibamento” storico e culturale sarebbe utile anche per capire il valore dell’affermazione di Sgorlon su come il potere colpevolizza sempre qualcuno e qualcosa. Anche questo non va dimenticato.
Lo scrittore ha molte volte ammesso che lui non amava la cronaca ma riteneva importante dare alle sue storie un andamento epico perché per lui era fondamentale riconoscere il valore del narrare. Un grande insegnamento culturale.
Rileggere La foiba grande ci dovrebbe provocare empatia per le ingiustizie che si ripetono. Scrive Sgorlon a proposito di chi fuggiva dagli orrori: L’Italia ci accoglieva, ma a denti stretti, perché era costretta dividere con noi la propria miseria e la scarsità di ogni cosa. Eravamo dei disoccupati, senza casa e senza soldi, che si aggiungevano agli altri italiani senza lavoro e senza un tetto sulla testa. Possiamo giustamente obiettare che sono storie del 1945, raccontante nel 1992 e dobbiamo correttamente dire che è pericoloso fare acriticamente confronti e parallelismi storici ma legittimamente vogliamo ammettere che la letteratura ci aiuta a sentirci umani.
E magari permetterci di ricordare che il 10 febbraio ricorda la firma del Trattato di Parigi nel 1947 in cui l’Istria e la Dalmazia vennero assegnate all’Ex Jugoslavia. Insomma un Trattato per la pace. E chissà perché si continua a ripetere che la pace debba essere giusta. Precisazione per nulla superflua.
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