Che persone saranno mai gli odiatori? Come si chiamano, dove vivono, che cosa fanno nella vita i “leoni da tastiera”, quelli che sotto un falso profilo e improbabili nick name, minacciano, insultano, denigrano le persone prese di mira?
Prima mi dicevo: sono ragazzi in piena crisi adolescenziale, sono giovani problematici, asociali, aggressivi, difficili.
Qualche mese fa ho seguito la vicenda della senatrice Segre che, stanca di essere oggetto sui social di insulti sempre più pesanti, si è rivolta all’autorità giudiziaria e ha denunciato i suoi ben ventitré odiatori, avendo deciso che servisse un freno al dilagare del malanimo e dell’odio pronto a far passare dalle parole alle azioni reali.
L’odiatore tipo me lo costruivo in una modalità letteraria e cinematografica.
A differenza degli odiatori del passato, compunti nel rito del ritagliare parole e lettere dai quotidiani, comporre il testo denigratorio da incollare su un foglio, da spedire poi anonimamente all’indirizzo del malcapitato, l’odiatore moderno, detto anche hater, sta accomodato davanti a un PC o sdraiato sul divano o sul letto a comporre quotidiane invettive contro altri, istigando i compagni di social a dare il proprio contributo.
I social facilitano l’odiatore, lo incitano a scatenarsi con i post contro un nero, una compagna di scuola, un disabile, un rom, un ultrà della squadra concorrente, un avversario a qualunque titolo.
Nel mio immaginario prendeva forma un ragazzo poco votato allo studio, annoiato dalle richieste degli adulti, a caccia di una trasgressione a costo zero. Magari pensavo a un giovane senza studio né lavoro, un “neet”.
Gli uni e gli altri sarebbero inclini a comportamenti disdicevoli per scarsa socializzazione, per una formazione scolastica interrotta, limitati dalla penuria di strumenti culturali e cognitivi: individui che non hanno ancora elaborato un basilare codice etico.
Oggi invece…
Le indagini che hanno smascherato gli odiatori della senatrice Segre ci consegnano questo quadro: le venti persone individuate sono adulte. Diciassette uomini e tre donne, in età compresa tra i 71 e i 21 anni, che risiedono al nord come al centro e come al sud del Paese.
Tra di loro troviamo personaggi pubblici: un anziano ex funzionario di banca, da poco divenuto segretario cittadino di un partito; un noto chef; un oncologo; un medico; un’infermiera. Poi impiegati o disoccupati.
Tutti dovranno rispondere dei reati di diffamazione a mezzo web con l’aggravante della discriminazione razziale, etnica e religiosa.
Me li figuro nei loro abiti quotidiani: l’infermiera che si sta prendendo cura dei ricoverati nel suo ospedale; l’oncologo che si accinge a comunicare a un paziente la gravità del suo male e l’invasività delle terapie a cui si dovrà sottoporre; il neo segretario di partito che introduce gli iscritti al programma politico che come sempre fa riferimento anche a proposte di ordine etico; lo chef stellato dal sorriso aperto e conciliante che sta per andare in onda a illustrare agli utenti gli step della sua nuova creazione culinaria.
Poi i venti tornano a casa. All’ora del relax qualcuno di loro starà chino sullo smartphone a sfogarsi un po’. Per frustrazione? Per disagio? O per insoddisfazione? Per invidia verso chi ha più successo, più denaro, più bellezza? Difficile intuire perché si dilettino a scrivere frasi ingiuriose, minacce, parole di scherno, richiami alle camere a gas dei lager.
Più avanti dovranno chiedere scusa, su consiglio dei difensori. Ma potrebbero restare dell’idea che alla fin fine hanno scherzato, come in tanti si fa nel mondo virtuale dei social. E che, a ben vedere, loro hanno solo espresso in libertà dei pensieri condivisi da molti: contro gli ebrei, contro i vaccini, contro i migranti.
Ha ragione Liliana Segre: dobbiamo ribellarci a questa deriva, mettere all’angolo gli odiatori, ribadire la ferma condanna verso questi adulti affetti da povertà emotiva e spinti da impulsi distruttivi.
E, per favore, non chiamiamoli haters: lo scudo linguistico dell’inglese riesce a ridurre il peso della violenza verbale che hanno messo in atto.
Chiamiamoli solo così: odiatori.
E auguriamoci che qualcuno li possa aiutare a conoscere e a riconoscere le radici più profonde di certi loro comportamenti.
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