Andrò a votare portandomi nel cuore il ricordo di un incontro di tanti anni fa e i sentimenti che da allora albergano in me: lo slancio per uno stato decentrato e lo sdegno per le regioni divenute centri di spregiudicati affari.
In un’incipiente giornata primaverile romana eravamo, Remo ed io, appoggiati alla balaustrata del Gianicolo, ammirati nel godere il panorama di Roma. Eravamo da poco tempo scesi a Roma: io poco più che diciottenne, lui un po’ più avanti negli anni. Passò di lì Carlo Buzzi, un giovane deputato che era, come noi, insegnante elementare e, prima di noi, dirigente della Azione Cattolica. Con lui avevamo instaurato una rispettosa amicizia. Egli era diretto a incontrare don Luigi Sturzo, ormai stanco e malato, ospite di un convento di suore sulla via Appia. Ci propose di seguirlo. Io esitavo un po’ sia per il ritegno nel conoscere il fondatore del Partito Popolare, l’esule antifascista, il senatore a vita, sia per il timore reverenziale di disturbare un uomo che sapevo stanco e malato (sarebbe morto nell’agosto successivo al nostro incontro!).
Una suorina ci introdusse nella stanza completamente disadorna, il tavolo stipato di libri e giornali. In una poltroncina coperta di stoffa, sedeva il senatore Luigi Sturzo: viso affilatissimo, sguardo inquieto, aria signorile, modesto nel vestire. Mi sentii turbato per essere di fronte al protagonista di mezzo secolo di storia italiana. Il giovane deputato ci presentò e Sturzo ci invitò a prendere posto. L’amico deputato gli offrì un libro contenente una ricerca sulla dispersione scolastica in Sicilia, di cui Sturzo era nativo. Sturzo ringraziò e trasse spunto per dire che l’autonomia regionale poteva dare un impulso a combattere quella piaga. Aggiunse che la Costituzione sarebbe stata monca fino a che non si fossero attuate le regioni nel disegno elaborato dai padri costituenti. Si accalorava, anche se la voce rimaneva flebile, nel difendere il regionalismo come mezzo per riscattare il meridione, per capitalizzare le sue risorse e contrastare le sue patologie. Noi l’ascoltavamo attentamente e fu allora che capii che lo Stato si doveva costruire dal basso verso l’alto e non viceversa. MI entusiasmavo nell’udire che per trasformare lo stato unitario in pluralista e popolare, occorreva decentrarlo. La visione regionalista dello Stato non era, quella di Sturzo, una figurina istituzionale da poco, ma una vera e propria nuova architettura, un canale di partecipazione democratica dei cittadini alla vita pubblica. Uscii da quel colloquio con l’emozione di chi aveva incontrato un prete che non l’erudizione, ma la carità lo spingeva ad essere un uomo politico senza rassegnazioni, carico di tutte le inquietudini della società di quel tempo, a costo anche di combattere lo stesso partito che era sorto dal “suo” PPI e che si era costruito sull’apparato piuttosto che sulla società civile.
Andrò, dunque, a votare con la passione nata da quell’incontro e non con la rassegnazione dei vili; con l’orgoglio della terra che mi ospita assieme ad un amore che non trascura per essa il giudizio, la critica e anche l’indignazione.
Andrò a votare ricordando che negli ultimi trent’anni la regione è diventata un centro di potere più che di servizio, dove le risorse sono state erogate in modo discutibile, dove hanno prevalso l’arte del sotterfugio e della furbizia. Non dimenticherò che gli interessi economici di pochi sono stati fatti valere più della persona, che il familismo amorale ha usurpato ai competenti ruoli a loro spettanti in istituzioni, ospedali, strutture amministrative. Non dimenticherò coloro che hanno sostituito l’efficacia sanitaria con l’efficienza burocratica che obbliga il cittadino sovrano a districarsi tra medici di base, CUP, ASL e ASST e attendere mesi e mesi per ottenere un esame diagnostico.
Andrò a votare pensando a quegli uomini che costruirono la regione sui valori scritti nella Costituzione e non sui voti presi con promesse mai mantenute e sullo spreco del danaro pubblico: quelli erano uomini delle istituzioni, non capi!
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