Scrivo queste righe nella Giornata della Memoria, mentre da un lato avverto un senso di nausea nei confronti delle polemiche che accompagnano le commemorazioni e dall’altro mi chiedo anch’io se insistere troppo sugli eventi di quel periodo non produca assuefazione e rigetto. Liliana Segre, con lucidità e pacatezza stupefacenti, afferma: “So cosa dice la gente del Giorno della Memoria. La gente già da anni dice, ‘Basta con questi ebrei, che cosa noiosa’. Il pericolo dell’oblio c’è sempre. Una come me ritiene che tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella”. D’altra parte, quando i contenuti sono tanto crudi, il rifiuto e persino l’oblio diventano un meccanismo di difesa. E’ successo per la pandemia, sta succedendo per la guerra in Ucraina.
Allora mi sono chiesta in che modo si potrebbe comunicare la verità storica senza correre il rischio di annullarla. Penso che, anzitutto, bisognerebbe evitare il sovraccarico e la concentrazione di informazioni nella stessa giornata e poi eliminare ogni retorica, anche la più leggera sfumatura. Basterebbe raccontare i fatti, le esperienze vissute dalle persone comuni, come stanno facendo i pochi sopravvissuti e come spero facciano i loro figli e nipoti, scrivendo e pubblicando. Ma bisognerebbe farlo a piccole dosi, durante tutto l’anno e non solo il 27 gennaio.
Il Diario di Anne Frank fu, per me ragazzina, una rivelazione che ancora oggi mi coinvolge come un pugno nello stomaco. Se questo è un uomo di Primo Levi è un’opera a cui ogni tanto devo tornare per ritrovare, nel male, il senso dell’umano. Come nella vicenda di Ilse Weber, una poetessa ebrea ceca, nota per avere scritto storie per l’infanzia. Probabilmente già la conoscete – io l’ho scoperta l’anno scorso –, ma parlarne è il mio modo per celebrarla, ora che i riflettori mediatici si stanno spegnendo.
Ha 39 anni Ilse Weber quando nel 1942 viene deportata nel campo di Theresienstadt, assieme al marito Willi e al figlio più piccolo Tomas. Nel ’39, dopo l’occupazione nazista della Cecoslovacchia, era riuscita a far fuggire il primo figlio, Hanuš, con un Kindertransport. Una volta al campo, chiede di essere impiegata nel reparto di infermeria pediatrica, dove cerca di curare al meglio i piccoli pazienti pur senza medicine, vietate per gli ebrei. Durante la prigionia scrive poesie, testi di canzoni e filastrocche per intrattenerli e distrarli. Quando per il marito, il figlio e i suoi bambini viene il momento di salire sul treno per Auschwitz, sceglie di salirci anche lei per non lasciarli soli.
“E’ vero che possiamo fare la doccia dopo il viaggio?” chiede, una volta arrivata a destinazione, ad un prigioniero che l’ha riconosciuta. L’uomo non se la sente di mentirle: “No, non sono docce, sono camere a gas. Ti do un consiglio. Entraci cantando con i bambini, siediti con loro per terra e continuate a cantare: inalerete il gas più velocemente ed eviterete di essere schiacciati dagli altri quando scoppierà il panico”.
Ilse entra con i suoi bambini cantando Wiegala, la ninna nanna che aveva composto e che tante volte aveva intonato per farli addormentare. […] Fai ninna, fai nanna, sereno riposa / dovunque la notte si fa silenziosa! / Tutto è quieto, non c’è più rumore, / mio dolce bambino, per farti dormire […] [1] E’ il 6 ottobre 1944.
Willi, il marito, aveva nascosto i suoi scritti sotterrandoli nel maneggio di Terezín, prima della deportazione ad Auschwitz, nella speranza che qualcuno, un giorno, potesse ritrovarli. Invece fu lui a sopravvivere e a recuperarli. Anche il figlio Hanuš si salvò. Sulla madre scrisse un libro: Ilse: una storia d’amore senza un lieto fine.
[1] Traduzione italiana Ferdinando Albeggiani
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