Menschheit, dicono i tedeschi. Molto più che umanità. Significa unione, il crucco.
È quello che lega, definitivamente unisce chi c’era, chi ha visto.
È quanto successo al tavolo verde quel giorno degli orfanelli in calore.
All’agenzia ippica quando l’accoppiata uno otto è arrivata a Cirigliano tre volte di fila.
Il giorno che al biliardo ti hanno detto “Se rifai quel cinque sponde il centone che metto in buca è tuo” e tu lo hai rifatto.
La volta che alla roulette del privè hai preso la serie e non l’hai mollata e quelli intorno hanno capito che eri in gobba e ti hanno seguito.
L’occasione che ti ha fatto spennare il Topo che teneva banco ai dadi americani e tutti a venirti dietro alla punta.
L’azzardo le rare volte vincente, insomma, vissuto insieme.
Anche solo quei cinque minuti nei quali hai cominciato a volare e gli altri con te.
Menschheit.
E capita che di questo o di quello tu non senta parlare più per decenni e che poi anche solo un piccolo appiglio ti riporti alla mente il quando e il come con la tenerezza dettata da una comunione acuita dall’implacabile trascorrere del tempo.
E oggi – non per chissà quale collegamento della memoria ma perché Johnny il ladro, sotto i portici, gli occhi fissi per terra, mi ha detto che all’improvviso se n’è andato – è giusto ricordare ‘braccino’.
Antonino vattelappesca (mai saputo il cognome) si era guadagnato sul campo quel nomignolo perdendo regolarmente, una volta arrivato facile a disputarle, le finali dei tornei cittadini di biliardo.
Insomma, il ‘braccino’ gli veniva nei momenti decisivi e il filotto fatto ad occhi chiusi fino alla precedente partita non gli riusciva più.
Neanche a piangere.
Lo caricavamo quindi dal clanda nei turni eliminatori per poi mettere l’intero botto, alla fine, sul rivale.
Soldi in cassaforte.
Poi capita che assolutamente senza un perché la faccenda prenda una sera la diversa piega.
Che un paio di bevute dell’avversario gli diano una bella mano e, per la miseria, non tremi e vinca.
I salti di gioia.
Da matti.
E correva in giro per la sala.
E stringeva le mani.
E ci mise un po’ a rendersi conto del fatto che noi non partecipavamo come si aspettava.
“M’avete giocato contro?!” un po’ chiese e un po’ affermò allora.
“Beh” – dovevo pur dirgli qualcosa e così – “contavamo sul tuo ‘braccino’…”
Finì che oltre ai quattrini persi, perdemmo, l’amico.
Un bel bailamme, no?
Ma ‘braccino’ non è un morto come tutti gli altri – quelli che muoiono a ripetizione, sempre loro – e va qui particolarmente celebrato per l’inghippo che scoprii qualche anno dopo parlando per caso con quel clanda, il tizio che teneva le scommesse la famigerata sera.
“Vi abbiamo intortato per bene e neppure lo avete sospettato.
Il giorno prima ‘braccino’ mi ha convocato al bar e si è presentato con Germano, uno forte, quello che poi ha perso.
E m’ha detto che se fossero arrivati in finale loro due avrebbe vinto con l’aiuto di un qualche tiro sbagliato del rivale.
Di dare una quota allettante a Germano e accettare tutte le giocate.
Così abbiamo fatto.
E ci siamo divisi un buon pacco!”
Non ho più visto ‘braccino’ e non ho potuto dirgli quel “bravo” che gli era dovuto nel contempo inchinandomi e proferendo “chapeau” come meritava.
Era riuscito a tirarmela, per la miseria.
Non una cosa facile.
Per niente!
Vergato in Varese nelle primissime ore del mattino del giorno dedicato dalla Chiesa a Sant’Anseride Vergine.
Corre il 2020, anno della pandemia.
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