Gli ebrei non furono l’unico gruppo umano in quanto tale condannato dai nazisti allo sterminio. La medesima sorte era stata stabilita per gli zingari, oggi noti col nome di rom, anche se a causa della loro mobilità e delle anagrafi incomplete al loro riguardo non si sa precisamente quanti perirono. Si stima comunque non meno di un quarto di quelli che vivevano in Germania e nei Paesi occupati. Ad Auschwitz una sezione del campo era loro riservata. I rom sono tuttavia un gruppo isolato e marginale, che né desidera né è in grado di farsi conoscere molto, che non abbonda di scrittori e che non ama raccontarsi. Perciò non si dispone al loro riguardo di tante testimonianze, memoriali e ricerche storiche quante se ne hanno nel caso degli ebrei. Questo però non dovrebbe impedire a chi intende commemorare i genocidi nazisti di parlare anche dei rom.
Ci sono poi altri due gruppi che furono oggetto di deportazione: gli oppositori politici, e anche i militari che, trovandosi sotto le armi nelle forze armate italiane, dopo l’8 settembre 1943 si rifiutarono di passare dalla parte della Repubblica Sociale Italiana, RSI, e quindi di restare al fianco dei nazisti.
Gli oppositori politici italiani deportati furono 23.826 (1514 donne), tra cui mio padre. Alle camere a gas erano destinati i più anziani e quelli ritenuti più deboli. Gli altri venivano fatti lavorare fino allo sfinimento. Il 45 per cento di loro, 10.129, morì o venne ucciso tra cui uno zio di mia moglie.
Dei militari cui venne proposto il passaggio alla RSI solo il 10 per cento accettò. Gli altri, circa 600 mila, vennero deportati. Durante la deportazione tra 37 e 50 mila morirono di cui 4600 per condanne alla pena capitale.
Anche i rom e i deportati politici dovrebbero essere oggetto di intensa commemorazione. E analogamente i militari deportati in Germania per essersi rifiutati di passare alla RSI. Ci sarebbero poi anche da ricordare i 100 mila civili tra uomini e donne che dopo l’8 settembre vennero arrestati e spediti dalla RSI in Germania come lavoratori coatti.
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Tutto ciò fermo restando, resta il fatto che tra i grandi autoritarismi del secolo XX il più duraturo e cruento fu il marx-leninismo. Di fatto in Italia abbiamo esperienza diretta del nazismo e non del marx-leninismo, ma ciò non toglie il nostro dovere di ricordarci anche delle stragi di quest’ultimo. Sovviene in proposito la tragica vicenda dei 1020 italiani vittime del terrore staliniano ricordati nel cippo che sorge nel cimitero memoriale di Levashovo alle porte di San Pietroburgo. Il cippo venne inaugurato nel giugno 2007 da Piero Fassino in rappresentanza del governo italiano. Nella circostanza Fassino, nato e cresciuto politicamente nel Partito Comunista Italiano, fece un discorso coraggioso in cui disse tra l’altro «Non bisogna essere reticenti. dobbiamo guardare al passato con gli occhi della verità. Lo dico da uomo di sinistra. Non sono venuto a liquidare il passato, ma a rendere giustizia e onore a vittime il cui sacrificio è stato negato, vittime dello stalinismo e del comunismo. E di Togliatti». Alla cerimonia partecipai io stesso a nome della Regione Lombardia di cui molte delle vittime erano originarie. Si trattava per lo più di comunisti italiani dissidenti (bordighiani, trotskisti ecc.), cui negli anni del fascismo Togliatti, allora residente a Mosca, faceva giungere il consiglio di rifugiarsi nell’Urss per sfuggire a un presunto imminente arresto da parte della polizia fascista. Giunti nell’Urss spesso con le loro famiglie, i malcapitati o subito o dopo un certo periodo di tempo finivano nei Gulag. Nel suo libro Una bambina contro Stalin, Mondadori 2007, Gabriele Nissim rievoca il caso di uno di loro, Gino De Marchi (1902-1938) come gli venne raccontato da sua figlia Luciana che era ragazzina quando il padre venne arrestato e lottò a lungo per avere sue notizie e conoscerne la sorte. È un libro impressionante perché consente di farsi un’idea nel dettaglio di come si articolasse il terrore staliniano. Sul cippo di Levashovo è ricordata pure la deportazione dei discendenti dei pescatori e dei vignaioli pugliesi emigrati in Crimea nel secolo XIX che Stalin durante la seconda guerra mondiale, all’avvicinarsi alla Crimea delle armate italo-tedesche, fece prelevare e disperdere nell’allora Asia centrale sovietica.
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