La storia non contiene il prima e il dopo…La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora…La storia non si fa strada, si ostina… Da quando nel 1971 Eugenio Montale scrisse questi versi di un pessimismo totalizzante e distruttivo di ogni certezza continuano a disorientarci.
Ci spiazza l’affermazione iniziale secondo la quale la storia non contiene il prima e il dopo. E vorremmo ribellarci al pensiero, un pensiero dolorosamente poco poetico, del premio Nobel.
Ben sappiamo, infatti, quanti prima e dopo punteggiano la storia: ferite insanabili, fratture epocali. Molti ricordano l’aforisma del filosofo tedesco Adorno, che nel 1963 affermò polemicamente: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. La riflessione di Adorno è ben più articolata di quelle poche parole che si sono conficcate nella nostra memoria e non è un atto di accusa contro la poesia ma un monito affinché ci debba essere un dopo Auschwitz.
E faticosamente lo è stato, testimoniato dalla dolorosa sofferenza dei sopravvissuti che avevano perfino paura di non essere creduti, come spesso ci ricorda Liliana Segre, e come lo dimostra la ricerca di un linguaggio che permetta di descrivere l’indescrivibile. Si tende ancora a parlare di campi di concentramento e non di sterminio, le fabbriche della morte, Death Factories, come già nel 1946 Hannah Arendt li aveva definiti.
A lungo si è parlato di olocausto, una parola che aveva il senso di un ineluttabile sacrificio. Quasi per un pudore incapace di afferrare l’orrore disumano.
Per questo siamo ancora chiamati a rispondere al drammatico ordine di Primo Levi. “Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa e andando per via, coricandovi e alzandovi; ripetetele ai vostri figli.
Parole perentorie, che non devono sbiadire in questo 2023, in cui a ottobre si ricorderà quanto successe nel ghetto di Roma esattamente ottant’anni fa.
La storia non si può, davvero, ignorare. Giustamente per questo mese di gennaio l’Università Cattolica ha organizzato un convegno dal titolo drammaticamente significativo: “Le leggi razziali del 1938 e la legalità del male”. Un atto di accusa alla coscienza. Un appello senza tempo. Un incessante fare nostre ancora una volta le parole di Primo Levi. “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Conoscere la follia nazista in tutte le sue facce.
Suonano, ad esempio, inquietanti le parole di Antonio Tedesco a proposito della ricostruzione relativa alla morte ad Auschwitz di Viva, la figlia di Pietro Nenni. “A tutt’oggi gli storici non sono riusciti a spiegare – scrive Tedesco – perché mai il 24 gennaio del 1943 duecentotrenta donne politiche francesi vennero caricate su una sorta di treno per bestiame per essere deportate”. Molte non fecero ritorno. Morirono ma il dovere della memoria, e non perché imposta per Legge, ci chiama responsabilmente a non farle precipitare nel silenzio dell’oblio. Anche se – come ricorda Levi – siamo sui nostri divani… dobbiamo ostinarci a conoscere. Ognuno a modo suo, ma possibilmente insieme e convinti – come coraggiosamente scrisse Montale: “La storia non è poi la devastante ruspa che si dice”.
Non lo è se non glielo permettiamo. Proprio per questo è davvero doveroso ricordare il noto e il meno noto di quegli orrori di ottant’anni fa. Un esempio e un nome fra i molti.
Iréne Némirovsky nata nel 1903 a Kiev, grande scrittrice di lingua francese, di religione ebraica, morta ad Auschwitz nel 1942. Iréne, conosciuta per il suo romanzo più celebre, Suite francese, non ha raccontato dei campi di sterminio ma il dolore di lei bimba e giovane ucraina. La storia è anche questo dolore che continua.
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