Ci sono i film o le serie Tv che oggi tanto vanno di moda. E i libri, certo, per chi non ha perso il gusto di tuffarsi nelle loro pagine. Sono i mezzi di trasporto a disposizione della nostra mente: ci sali e parti, lontano dal qui e ora, verso mondi disegnati da immagini o parole che cuore e cervello poi rielaborano, ricostruendoli perfettamente dentro di te.
Sempre più di rado ciò accade invece per il tramite della semplice chiacchiera: non abbiamo più voglia di fermarci ad ascoltare qualcuno, ci annoiamo facilmente, diffidenza verso l’altrui opinione e distacco sono sovrastrutture che ci tengono lontani. Sono andati i tempi in cui gli uomini sapevano lasciare a bocca aperta i loro simili con la sola potenza di una storia uscita dalle loro labbra.
Ci sono delle eccezioni e forse – senza falsa modestia – chi scrive ne rappresenta un esempio. O almeno l’ha rappresentato, quando è rimasto (è accaduto un anno e mezzo fa) quasi due ore immerso nei racconti di Luigi Carcano. Il pretesto fu l’intervista a uno degli imprenditori più inossidabili del Varesotto, ma l’esperienza andò oltre il dovere professionale: fu un viaggio tridimensionale.
Carcano è l’imprenditore che ti aspetti, quello di una volta, quello del Nord, quello che tante pellicole viste e romanzi letti avrebbero positivamente caricaturato come cumenda: alto, agile e sciolto nonostante i 75 e passa anni, sempre vestito di una sobria eleganza, il vizio del fumo acquisito in un’epoca in cui fumare non faceva scattare i sensi di colpa, e mai più perso, il marcato accento lombardo, gli sconfinamenti improvvisi ma attesi nel dialetto, i modi diretti e risoluti del comandante sempre però ammantati di sensibilità e stile, proprio di chi è abituato da una vita a sapersi comportare.
Era un pomeriggio di luglio, il sole entrava tangente dalle finestre di una sala riunioni che negli anni 70 o 80 sarebbe stata nuova di zecca. E il fumo si mischiava con i raggi, denso, quasi a ovattare i rumori dei camion, impegnati appena oltre il vetro nel fare docilmente – nonostante la stazza – manovra.
Lì, in quella stanza, è come se Carcano mi avesse fatto salire sui suoi Bestioni (per citare il celebre film con Giancarlo Giannini e Michael Constantin) che hanno portato in giro per l’Italia le merci di una Varese «che aveva tutto…C’era l’Aermacchi, sinonimo di tecnologia, per la quale trasportavamo gli aerei prima a Venegono e poi a Genova, dove salpavano verso il mondo intero. C’era la Poretti, la Minonzio, la Carrozzeria Varesina, il burrificio Prealpi, il sacchificio Tordera, il maglificio Malerba, la Molini Marzoli, la Lindt dei Bulgheroni, la Ignis, i cui mobili da Milano a Comerio li abbiamo trasportati noi… C’erano i Trolli… C’era un fiorire di cartiere, di carrozzerie, di concerie…».
Mi ha fatto andare ancora più indietro, alla prima metà del Novecento. A una Città Orto prima che Giardino. Bobbiate, ma soprattutto Casbeno, famiglie contadine, numerosissime, nelle quali al nonno si dava del voi: la Carcano Trasporti è nata lì, dal bisogno di trasportare frutta e verdura al mercato del centro; è nata tra le cascine, e tra i cavalli con attaccato un calesse.
Mi ha condotto agli anni del Boom, a tre fratelli che raccolgono l’eredità di nonno e padre e la moltiplicano, come la miglior parabola dei talenti, diversificandola anche. Chi, per esempio, passa dalla fine dell’autostrada che conduce in Milano e vede quell’enorme complesso nero con una proporzionata insegna che recita il nome “Casaforte”, sappia che l’Hotel delle Cose è nato proprio dall’intuizione del signor Luigi: nei suoi viaggi in America e nel Nord Europa aveva compreso che un business del genere avrebbe potuto funzionare anche in Italia, dove non esisteva. Aveva ragione.
Mi ha recato nella galleria d’arte di sua moglie, anni 70, nel centro di una Varese che non sempre è stata insipida al fascino della cultura: alla Blue Art fece capolino pure Andy Warhol…
Tutto questo, poco prima del Natale appena trascorso, è diventato un libro: “I Carcano e Varese: 150 anni di vocazione imprenditoriale e di storia”. Poche copie, distribuite solo ad amici e dipendenti (un peccato: dovrebbe essere letto da tutti i varesini) durante un pranzo in cui Luigi ancora una volta si è commosso parlando proprio di questi ultimi, «i miei collaboratori», come li definisce lui: «Per voi la porta del mio ufficio è sempre aperta…». Sono gli stessi cui nei giorni del Covid e del primo lockdown scrisse una lettera: «Sono orgoglioso del vostro sacrificio quotidiano…».
Un padrone, si diceva un tempo. Vero, ma di questa foggia non ne fanno proprio più.
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