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Società

IL NODO DEL MAGONE

LUISA OPRANDI - 26/05/2012

Mi sento una famiglia: separata da vent’anni, divorziata da sedici e senza avere avuto figli, non mi reputo esclusa dal valore sociale di questa bellissima parola collettiva.

Il pensare comune tende spesso ad estromettere da un parametro ideale chi non vi rientra. Ma, ab origine,  chi, attraverso una cultura collettiva diffusa, definisce i limiti sociologici delle categorie di appartenenza? Nelle nostre scuole moltissimi ragazzi, dai piccoli ai maturandi, hanno sperimentato sulla loro pelle la fatica di distribuire affetti e comprensione agli adulti, adottando sulle proprie spalle l’istituto della famiglia allargata. Spesso, per non dispiacere alla madre o al padre, accettano di imparare a riferirsi ai nuovi affetti dei rispettivi compagna o compagno di vita dei genitori, compiendo passi che i grandi non sono invece il più delle volte capaci di percorrere. Ragazzi che quasi sempre devono crescere dividendo i loro fine settimana non semplicemente tra lo studio e gli hobbie, ma primariamente tra le quarantotto ore a casa di uno e quelle a casa dell’altro o magari dai nonni: i loro desideri sono secondari all’obbligo del tempo stabilito dal giudice o peggio ancora alle ripicche di madri e padri ansiosi di rivalersi sull’ex coniuge.

Eppure sono ragazzi che i loro coetanei non distinguono mai da quelli che hanno famiglie regolarmente e anagraficamente  intatte. Sono ragazzi che anche i loro insegnanti hanno smesso, almeno da più di un decennio, di considerare le “vittime della separazione e del divorzio”, perché nel quotidiano hanno visto come questi loro studenti abbiano saputo superare le insidie della solitudine silenziosa, del dubbio di avere magari involontariamente sbagliato qualcosa, di non avere amato abbastanza. Sono forti questi ragazzi e tanti casi di depressione giovanile, disturbi alimentari, fragilità emotiva investono indistintamente chi ha alle spalle una famiglia solida e chi ce l’ha distribuita su due case e un  numero variabile di fratelli di primo e secondo letto, espressione molto brutta che si usa quando si vuole rimarcare una differenza. Anzi, per quanto mi suggerisce in questo momento la mia semplice e senz’altro ridotta esperienza di insegnante e amica di parecchie donne e uomini passati le vicende della separazione o del divorzio, della vedovanza o della solitudine, mi verrebbe quasi da dire che tante volte i figli di queste famiglie, diverse dallo standard ideale, sono emotivamente più attrezzati a cavarsela con le difficoltà del tempo adulto.

Riconosco alla famiglia un ruolo importantissimo nella costruzione della società. Tanto è che, a mia volta, ho scelto di formarne, a suo tempo, una mia e con tutto il desiderio che fosse per sempre. Ciò non toglie che la vita ci insegna a non guardare la realtà in forma pregiudiziale, ritenendo che solo quanto è ideale sia anche bello e buono e giusto. Sarebbe come dire che chi subisce un incidente che lo porta a una menomazione, chi nasce con un limite fisico, intellettivo, un colore diverso della pelle, una cultura differente da quella ritenuta dominante …sia per forza diverso. In tutti gli altri ambiti, giustamente, ci educhiamo rispettivamente all’uguaglianza e al superamento delle distinzioni. Invece dal concetto di famiglia si tende ad escludere chi ha, nel corso della propria vita, incontrato la sofferenza e la fatica: non c’è donna o uomo, figlio o figlia che vivano lo smembramento del nucleo familiare senza faticare, soffrire, passare per momenti di grande solitudine e per quelli della ricerca di forze interiori e concrete per andare avanti e costruire un domani altrettanto sereno per sé e per chi si ha attorno. Mi piacerebbe che nelle nostre parrocchie, quando si festeggia la festa della famiglia, ci sia posto anche per chi magari ha fatto, se non quella di quattro o cinque parti, qualche altra fatica, compresa quella di ingoiare qualche nodo di magone perché la propria famiglia si è ridotta di numero. Mi piacerebbe che al Forum delle famiglie ci fosse uno spazio anche per tutti coloro che una famiglia l’hanno voluta, amata e costruita e ai quali la vita ha chiesto di fare un sacrificio in più: guardare quelle altrui e non sentirsi più poveri, non considerarsi meno amati o meno capaci di avere il proprio dignitoso ruolo nella comunità civile.

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