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Attualità

REGISTA SU DUE RUOTE

CESARE CHIERICATI - 05/01/2023

adorni-gimondiGira in internet una fotografia che ritrae insieme Vittorio Adorni e Felice Gimondi, il primo in maglia rosa il secondo in maglia gialla. Belli, giovani e vincenti. Era per l’italico pedale l’anno di molta grazia 1965 ovvero l’anno in cui avevano rispettivamente trionfato al Giro d’Italia e al Tour de France. Entrambi non ci sono più. Felice se ne è andato in una giornata d’agosto del 2019, Vittorio, di quattro anni più anziano, la vigilia del Natale appena trascorso. Non è affatto retorico affermare che nella storia del ciclismo nazionale si è aperta una voragine di memoria, di compostezza, di etica ciclistica. In maniera diversa hanno entrambi testimoniato a suon di successi e grandi prestazioni una stagione di rinascita dello sport delle due ruote. Di Gimondi abbiamo scritto in occasione del suo settantesimo compleanno e nella circostanza avevamo ricordato il suo forte legame con Adorni, un legame del tutto inossidabile rispetto all’inevitabile rivalità agonistica e al mutare delle maglie indossate e dei relativi ingaggi. Felice aveva sempre riconosciuto che l’amico – rivale lo aveva non poco aiutato nell’affinare il suo grande talento, nel leggere il mutevole andamento delle gare, nel decifrare la difficile algebra delle grandi salite. “Del resto- ricordava Vittorio – siamo stati a lungo compagni di camera e questo mi ha consentito di approfondire la conoscenza di Felice anche sotto l’aspetto umano, si può dire che quando arrivò alla Salvarani era ancora un ragazzino con un contratto che teneva conto della sua giovane età”. Il sodalizio tra i due fu un toccasana per il ciclismo nazionale che, messe alle spalle le brillanti stagioni di Gastone Nencini ed Ettore Baldini, attraversava un preoccupante periodo di magra a fronte dello strapotere del fuoriclasse francese Jacques Anquetil. Ebbene Adorni fu il regista di quel rinascimento a pedali con la sua sapienza tattica e con le sue vittorie tra le quali spiccano il Giro del ’65 e il campionato mondiale del ’68 a Imola, praticamente sull’uscio di casa. Due imprese memorabili: nel tappone alpino della Saas Fee – Madesimo mise il sigillo definitivo su un Giro di cui si era inesorabilmente impossessato tappa dopo tappa; la maglia iridata invece arrivò al termine di una fuga clamorosa; lasciò il secondo, il belga Van Springel a 9,50” minuti di distacco e il terzo, Dancelli, a 10,18”. Beffati i grandi rivali stranieri: Van Looy, Anquetil, Poulidor, Janssen e un certo Eddy Merckx che già avevo dato prova di essere un fuoriclasse, ma anche lui, il “cannibale”, quando nel ’68 era approdato alla Faema, venne affidato alle attente cure di Adorni, già allora una sorta di direttore sportivo montato su due ruote, affinché ne incanalasse lo strapotere fisico e la foga agonistica a vantaggio di un’attenzione più ragionata allo sviluppo complessivo delle gare. Aveva Vittorio una naturale propensione alla leadership, al dialogo col pubblico, alla gestione delle risorse umane della squadra, qualità che caratterizzarono anche le sue esperienze televisive, quelle di dirigente dell’UCI e quelle di amministratore locale. Dal 2006 al 2009 fu assessore allo sport del Comune di Parma, la sua città.

 Non fu comunque quella di Vittorio una carriera circoscritta all’Italia, corse molto anche all’estero cogliendo importanti piazzamenti e alcune significative vittorie come il Tour de Romandie (1965) e il Giro della Svizzera quattro anni dopo. Resta straordinario il successo nel ’66 al Gran Premio Cynar a Lugano, una delle corse contro il tempo più importanti del panorama ciclistico internazionale dell’epoca, nato nel ’50 e cancellato nel 1979. Si mise alle spalle Felice Gimondi e Jacques Anquetil che quella gara l’aveva vinta ben sette volte. Gli appassionati svizzeri lo sostennero a gran voce per tutti i 75 chilometri della durissima crono, forse in qualche modo ritrovavano in lui la classe, l’eleganza in sella e lo charme che erano stati il tratto distintivo, dieci anni prima, di un loro grande fuoriclasse, lo zurighese Ugo Koblet, che per alcune stagioni fu sui livelli di Fausto Coppi.

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