Confinata nell’orgia del Mondiale di calcio e nel leit-motiv della post season della F1, ovvero l’arrivo di Frederic Vasseur al posto di Mattia Binotto al timone della Ferrari, l’uscita di scena di Mick Schumacher dalla più importante categoria dell’automobilismo si è consumata nel quasi totale anonimato.
Eppure è un fatto che si presta a varie riflessioni. La prima, che è poi anche la più banale, è che nello sport nemmeno il cognome aulico salva da certi eventi se non sei in grado di aggiungere qualcosa di più. Ho conosciuto Mick, parlandoci per la prima volta (per anni lui è stato blindatissimo rispetto al resto del mondo; addirittura finché è stato minorenne le foto sue che circolavano erano pixelate sul volto), in occasione di un Gp del Belgio a Spa-Francorchamps.
Era il giorno in cui saliva sulla Ferrari che guidò suo padre in occasione di uno dei successi sulla pista belga. Mi lasciò un’ottima impressione: educato, sorridente, molto a modo mentre il padre era tendenzialmente scontroso, sussiegoso, non certo un personaggio facile anche perché – e qui aggiungo un “inevitabilmente” a sua parziale difesa – forse non c’era altro modo per sopravvivere all’assalto mediatico di cui era oggetto.
Vedendo però Schumi jr. così diverso dal genitore mi immaginai per lui qualcosa di positivo, ovviamente sotto i colori e l’egida della Rossa di Maranello, una volta acquisita la necessaria esperienza. Uno Schumacher gentile e pure vincente: accoppiata perfetta per reiterare un mito che, purtroppo, dal 2013 ha dovuto fare i conti con la terribile sciagura di Michael. Non solo: c’era pure un contorno a giustificare la cosa, dal suo inserimento nella Ferrari Driving Academy al fatto che la manager del padre, Sabine Kehm, aveva preso sotto l’ala pure il rampollo.
Mick, di suo, ci ha aggiunto poi anche risultati più che buoni a livello dei campionati che preparano al grande balzo: campione europeo della F3 e soprattutto campione del mondo in F2. Ma questo percorso che avrebbe dovuto preludere allo sbarco sulla Ferrari si è interrotto nei due anni deludentissimi alla Haas, il team che adesso l’ha cacciato (nonostante sia una sorta di satellite del Cavallino) imputandogli troppi errori, troppe auto sfasciate e pochissimi punti (un ottavo e un sesto posto sono il suo misero bottino).
L’annuncio successivo all’ ”espulsione” decretata dalla squadra Usa, ovvero la risoluzione consensuale dell’accordo pluriennale del pilota con Maranello, ha messo fine a una storia che avrebbe potuto essere bellissima e che invece è andata storta. A volte ci si lascia tradire dall’immaginazione. Io credevo che Michael Schumacher sarebbe diventato il “reggente” della Rossa; invece prima che gli accadesse quanto a tutti è ben noto, la Ferrari l’aveva “tradita” passando alla Mercedes (meglio: tornando alla Mercedes perché all’inizio della carriera era la casa della Stella ad avere i diritti su di lui).
Inoltre mi è stato detto da personaggi ben informati che Schumi avrebbe potuto fare tutto tranne che quello: non aveva l’attitudine. Poi c’è stato il capitolo Sebastian Vettel e anche nel suo caso, ipotizzandolo vincente e iridato, tanti hanno pensato che a carriera conclusa sarebbe rimasto a guidare la scuderia che ha voluto a tutti i costi. Ecco, sbagliata pure questa valutazione: al di là della rottura traumatica con il Cavallino, anche di Seb ci si era fatti un’idea non corretta perché la prospettiva manageriale non gli calzava affatto. E ora c’è il flop di Mick: chiude definitivamente un’era e soprattutto conferma un’altra verità, cioè che nello sport i figli d’arte spesso non sono all’altezza della situazione. L’inevitabile misurarsi con un padre o con una madre può fornire una spiegazione?
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