Il termine “famiglia” piace e viene spesso usato, a torto o a ragione, anche nel mondo complesso, variegato e ondivago dell’editoria per identificare le redazioni, alcune almeno. Oggi non ci si limita più alla carta stampata ma il concetto va esteso alle radio, alle televisioni, all’informazione online e quant’altro. Naturalmente si tratta sempre di “famiglie” sui generis, essendo in realtà luoghi di lavoro, da intendersi, è naturale, a geometria variabile, nel senso che alcune erano (sono ancora?) più “famiglie” di altre.
Con un pizzico di retorica pari al conclamato blasone, “la famiglia” bene per eccellenza del giornalismo italiano era quella del Corriere della Sera: impiegati, correttori, giornalisti rigorosamente in giacca e cravatta, luci soffuse, toni di voce smorzati dentro la cornice vagamente british degli arredi in noce delle redazioni di più antico lignaggio come quella, mitica, degli esteri.
Finché rimase nei palazzi anni ’20 di via Bianca di Savoia “la famiglia”, per definizione, delle case editrici milanesi fu la Arnoldo Mondadori Editore con il fondatore-patriarca assiso nel suo grande ufficio al piano terra dove nel corridoio di ingresso si potevano incrociare poeti come Giuseppe Ungaretti e Vittorio Sereni, scrittori come Giuseppe Dessì e Fulvio Tomizza, storici, saggisti e intellettuali a vario titolo.
Era assistito, il grande Arnoldo, da una pattuglia di segretarie sobrie e senza età apparente. Le comandava una generalessa dal nome improbabile, Ero Agostini, algida e incorruttibile. Con l’abituale ironia ricordo che Enzo Biagi l’aveva definita “ Ero, un soldato”. Alla Mondadori facevano capo un numero infinito di redazioni editoriali, letterarie, giornalistiche che coprivano il mercato a centottanta gradi: dai Meridiani agli Oscar passando tra le varie collane più o meno colte; da Epoca, tempio italiano della fotografia d’autore, a Confidenze e Bolero passando prima per Panorama, Grazia e Storia Illustrata. Ogni redazione un mondo a parte con le sue gerarchie, le sue solidarietà, le sue complicità generose ma anche le invidie, i contrasti, le incomprensioni abissali. In un romanzo di grande finezza e sarcasmo “ La grande famiglia”, appunto, Laurana Berra, redattrice mondadoriana del settore “Enciclopedie”, descrisse, con buon successo editoriale più di quattro decenni fa, quell’inimmaginabile microcosmo.
Più simile a un film di Federico Fellini, “Prova d’Orchestra” (1979), era invece la “famiglia” del Giorno, dove ho avuto la fortuna di lavorare per alcuni anni. Il quotidiano voluto da Enrico Mattei nel 1956, assolutamente innovativo sotto tutti i profili – grafico, stilistico, editoriale – fu il primo a mettere lo sport in prima pagina; il primo a rompere il conformismo e il grigiore confindustriale che omologava la stampa quotidiana, cosiddetta indipendente, da Torino a Palermo; il primo a descrivere senza ipocrisie la provincia italiana e a raccontare i paesi del terzo mondo con occhi sgombri dalle antiche suggestioni coloniali. Era una redazione di simpatici perditempo, di solisti avventurati, di inesausti affabulatori che a notte inoltrata facevano fatica a staccare dalla redazione per raggiungere, quando le avevano, le loro vere famiglie. Chi rimaneva per la chiusura dell’ultima edizione, ormai a notte fonda, giocava a carte, improvvisava spuntini a base di imperdibili salumi forniti dai corrispondenti della bassa milanese e in autunno da dessert di castagnaccio. Come “prealpino” toccava a me fornire la materia prima che Nino Leoni, un picaresco cronista che conosceva tutti i segreti della Stazione Centrale, cucinava con indiscussa maestria. Invariabilmente la colonna sonora di quelle serate era la radio dei Carabinieri o della Polizia sulle cui frequenze si sintonizzavano abusivamente tutti i quotidiani.
Se disertavi il rito potevi sempre chiacchierare con il capo redattore notturno, Angelo Del Boca, ex inviato speciale della Gazzetta del Popolo di Torino, che raccontava la sua Africa (la Libia, l’Etiopia, la Somalia ) fino a diventarne di lì a poco uno dei maggiori storici italiani. Quell’atmosfera di vigile rilassatezza si trasformava però in energia adrenalinica di fronte alla notizia, quasi sempre di nera, che poteva piombare sulla redazione in qualsiasi momento. In un amen cronista – magari più di uno – autoradio e autista erano pronti a uscire, una corsa contro il tempo per dettare a braccio la notizia per la ribattuta in corsa, cioè a rotative già avviate, per non prendere il buco dal Corriere e invece, se possibile, darglielo. Scattava in quei momenti tra i colleghi una straordinaria solidarietà, il giornale diventava un’autentica orchestra come del resto sempre accadde durante la lunga stagione delle bombe, delle stragi, degli attentati terroristici. “La famiglia” si compattava dietro il vicedirettore operativo Angelo Rozzoni, impareggiabile coordinatore di uomini e mezzi, un regista alla Suarez (lui del resto era un interista della prima ora…) che sapeva far giocare a memoria la sua squadra–famiglia.
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